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"Chiacchiere, datteri e tè": raccontare la nuova Tunisia

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Chiacchiere, datteri e the.
Tunisi, viaggio in una società che cambia
di Ilaria Guidantoni

Albeggi editore, 2013



A chi, come me, ha in uggia e sospetto il profluvio di partigianeria, strumentalizzazione, faciloneria, improvvisazione di cui dà prova la grande (in senso solo quantitativo) stampa nazionale di fronte agli avvenimenti internazionali, specie se imprevisti e subitanei, non può che risultare piacevole e consolante imbattersi in libri come questo. Un libro che inverte nel polo opposto, quello positivo, tutti e quattro gli aggettivi che ho appena usato. Non parteggia per nessuno degli attori politici in campo, né interni, né italiani né internazionali; non strumentalizza l’informazione per piegarla a fini di parte, ideologica, politica o economica che sia; non giudica la situazione sovrapponendo ad essa i comodi e facili schemi culturali del soggetto occidentale; non improvvisa conoscenze che provengono invece da una frequentazione costante e partecipata.
Ilaria Guidantoni, non nuova a saggi e libri sulla situazione tunisina determinatasi a seguito di quella che è stata definita la “primavera araba”, offre al lettore italiano, curioso e disposto ad essere informato e non solo rassicurato o incitato contro qualcuno o qualcosa, un’esperienza personale di partecipazione, indagine e conoscenza della realtà tunisina post-rivoluzionaria (sempre che di rivoluzione si possa parlare). Si tratta di una ricerca aperta, che non nasconde i dubbi e le contraddizioni e che permette al lettore di farsi un’idea personale sui fatti, sui luoghi e sulle persone di cui la giornalista e scrittrice racconta.

Il libro ha una struttura “narrativa” ben precisa: brevi capitoli che hanno per oggetto un incontro con giornalisti, politici, artisti, impiegati, tassisti, ecc. (insomma la parte più viva e fattiva della società tunisina); si dà il giusto rilievo al luogo dell’incontro, alle usanze gastronomiche (tanto più sentite in quanto il soggiorno dell’autrice si svolge durante il ramadam), alle bellezze paesaggistiche, monumentali e umane del luogo (tanto che spesso il testo si configura volutamente anche come guida turistica); ogni capitolo è introdotto da un proverbio tunisino (in molti casi magnifici e sorprendenti: più che da comune senso popolare da saggezza dell’oriente estremo) e chiuso dal nome della personalità incontrata. La ripetitività strutturale, la sinteticità e varietà degli incontri, l’umana e non asettica presenza della scrittrice tengono desta l’attenzione del lettore e facilitano la sua partecipazione emotiva e intellettuale. 


Il tema principale è la transizione dalle effervescenze rivoluzionarie alla relativa stabilizzazione delle sue conquiste. Il prisma da cui si guarda a questo difficile e tortuoso passaggio è costituito in gran parte dal ruolo svolto dalla religione islamica, dal rapporto tra i generi e dai giovani. Se ne ricavano impressioni contrastanti e la stessa autrice dà spazio a voci discordanti che fluttuano dai rigurgiti dell’integralismo religioso ai rischi di un’occidentalizzazione forzata e feroce, dal ritorno a pratiche di sottomissione e subalternità della donna all’ambizione della sua più compiuta (per il mondo arabo) emancipazione, dall’entusiastica e coraggiosa partecipazione giovanile alla più apatica indifferenza. Una situazione in movimento che autorizza inquietudini e speranze e che non può essere guardata solo secondo i canoni (sempre più stantii e inefficaci, per la verità) del laicismo, del progresso economico e della democrazia occidentale (e va letta con attenzione la parte riguardante l’uso del velo per le donne, di cui una delle intervistate dice che avere il velo in testa non significa necessariamente averlo nella testa, mentre un’altra sostiene esattamente il contrario). Semmai ci sarebbe da notare che mentre l’autrice problematizza giustamente il concetto occidentale di stato laico, forse non problematizza a sufficienza lo stesso concetto di democrazia, in base al quale spesso l’Occidente si è arrogato il diritto di intervenire militarmente (laddove ci fossero risorse sfruttabili e non si prevedessero resistenze accanite o invincibili) per ripristinarne il funzionamento.


Ilaria Guidantoni assume la posizione dell’ascolto, si sforza di liberarsi da pregiudizi e preconcetti occidentali e di allontanarsi quanto più possibile da ogni oltranzismo, religioso o laicista che sia, indicando in questo modo una delle vie più condivisibili per avvicinarsi a culture e stili di vita diversi dai nostri. Dove però l’autrice, a mio parere, mostra tutto il suo spessore umano, fatto anche di incomprensione e sgomento, il suo coraggio e la sua capacità di rischiare, non tanto l’incolumità fisica, quanto la solidità di un pensiero, di un’indagine e dei suoi metodi, è nel capitolo dedicato alla visita, più o meno camuffata, alla zona della città più povera, violenta e tradizionalista, che si mostra refrattaria alla stessa concettualizzazione politica e culturale. La giornalista si pone e pone il suo lettore di fronte ad una sorta di buco nero che potrebbe inghiottire, rendendoli inani e accademici, tutti i bei discorsi sulla rivoluzione, le speranze e le inquietudini che riguardano, in realtà, una parte delimitata della società tunisina.

Paolo Mantioni