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La letteratura che diventa ideologia: "La donna che mi insegnò il respiro"

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La donna che mi insegnò il respiro
di Ayad Akhtar

Mondadori, 2012
pgg. 325
€ 18,00

Questa recensione comincia con un'affermazione perentoria: questo libro è una grande delusione. Una delusione perché è scritto male? Assolutamente no. Perché la storia è banale e noiosa? Tuttaltro. E allora perché si chiederà il nostro sconcertato lettore?
Ma cominciamo dall'inizio, come si conviene ai "bravi" critici (quelli che scrivono sul Corriere della Sera o su Repubblica insomma) e iniziamo a raccontare la trama.
Hayah Shah, protagonista e cantastorie della vicenda, è un ragazzino di origini pakistane nato e cresciuto nella penisola americana la cui vita procede tranquillamente fino all'arrivo della zia Mina che lo inizierà alla conoscenza del Corano. Mina, però, si innamorerà di un uomo ebreo, Nathan. Per Hayah, influenzato dalla comunità pakistana e da una lettura ortodossa del Corano (diversa da quella di Mina che ne dà invece una lettura individuale), è un vero e proprio colpo (anche perché è segretamente innamorato della zia) e troverà tutti i modi per far lasciare i due. Nathan, inoltre, non verrà accettato neanche dalla comunità musulmana anche quando accetterà di convertirsi poiché, come dice lui stesso: "non importa ciò che cerchiamo di essere... rimarremo sempre ebrei".
Ci credereste, fratelli e sorelle? Cosa non farebbero simili persone per il proprio benessere?! Per il proprio agio?! Persino tradire il Signore che li ama... tradirlo in continuazione. E perché?! [...] Perché loro amano se stessi. Amano se stessi più dell'Onnipotente! Mettono se stessi per primi! Credono di meritare più degli altri! Più di quanto ricevono! Credono di meritare tutto ciò che vogliono! L'hanno dimostrato a più riprese, come sappiamo dagli esempi nel Corano. E, certo, come vediamo nel mondo attuale con la situazione in Palestina...
Come si vede il punto di vista dell'autore è chiaro ed evidente. Il tema portante di questo romanzo è il conflitto religioso e una critica nei confronti dell'integralismo islamico. Il problema non è il punto di vista (al di là del fatto che inserire in questo passo, e in altre occasioni, il riferimento alla Palestina è un'evidente forzatura). Il problema, come abbiamo già affermato in altre recensioni, è la mancanza del conflitto. Senza conflitto non esiste il romanzo. Senza conflitto questo romanzo (scritto indubbiamente bene) diventa un pamphlet ideologico.
Per conflitto, ovviamente non intendiamo di conflitto tra i personaggi, ma conflitto tematico. Un conflitto che può essere tra individuo e società o tra diversi punti di vista. Qui, invece, nonostante il profondo conflitto tra i diversi personaggi della storia (tra Nathan e Hayah, tra i genitori di Hayah Muneer e Naveed, tra Mina e la sua famiglia) non esiste alcun conflitto tematico. I buoni sono da una parte, i cattivi dall'altra senza discussioni fino ad arrivare a conclusioni che rasentano il razzismo.

Come definire, se non razzista, infatti la posizione (poco credibile e poco realistica) per cui, mentre tutta la comunità musulmana si ribella al matrimonio di Mina con Nathan (nonostante la sua conversione), il padre di Nathan, ebreo ortodosso, non ha invece nulla da obiettare? Non vogliamo entrare, ora, nel merito di discussioni religiose ma cerchiamo, per un momento, di rivoltare la storia. Immaginiamo infatti che si narri la storia di un musulmano che vuole sposare una ragazza ebrea, il padre di lui è d'accordo e non obietta nulla anzi lo spinge verso il suo amore, mentre la comunità ebraica si rivolta violentemente contro questa scelta. Come definiremmo questo libro? Portatore di visioni razziste?

Come dicevamo, però, non è questo il luogo per discutere delle conseguenze sociali e culturali che il razzismo antiarabo ed antislamico può portare alla nostra società. L'evidenza è sotto gli occhi di tutti. E non vogliamo neanche contestare il punto di vista dell'autore. Qui parliamo della mancanza di un conflitto. Un conflitto assente in tutti i personaggi che portano lo stesso punto di vista. La comunità pakistana razzista e antisemita, Hayat che da antisemita comprenderà i suoi sbagli abbandonando l'Islam (e ponendo quindi una parificazione inaccettabile tra antisemitismo ed islamismo) e fidanzandosi con una ragazza ebrea, l'invidia di Muneer per le donne ebree che non avevano a che fare con gli "uomini islamici" e l'odio per tutto ciò che riguardi l'Islam del padre Naaveed.
Papà aveva afferrato il Corano, teneva la copertina con la mano destra, un blocco di pagine strette nella sinistra.  «Questa roba maledetta... » disse a denti stretti, le braccia e le spalle che si tendevano mentre cominciava a lacerare pagine su pagine. Alla fine riuscì a strapparle tutte dalla rilegatura. Borbottando rabbiosamente buttò a terra la copertina e iniziò a fare a pezzi le pagine sciolte. Tirava e strappava, pagine e brandelli di pagine che cadevano ai suoi piedi. In poco tempo il tappeto fu coperto di carta. Ballava sulle pagine a terra. Mentre calpestavano fuoriosamente i pezzi del nostro libro sacro, nei suoi occhi brillava una luce di follia. Si voltò verso di me, sempre saltellando. «Vuoi il tuo Corano?!» urlò. «Eccotelo il tuo fottuto Corano!»
L'unico personaggio, che sembra elevarsi rispetto a questa monotonia tematica, è proprio Mina. Mina, infatti, è islamica e studiosa del Corano ma sembra inizialmente diversa. Non accetta le imposizioni della famiglia, è scappata da un uomo che il padre le aveva scelto e che non amava, scappa negli Stati Uniti e si innamora di un uomo di religione ebraica. Anche lei, però, in fondo, risulterà essere non molto diversa dagli altri pakistani (o, meglio, da come l'autore vuole farci credere che siano i pakistani). Cosa fa infatti? Costringe inizialmente Nathan a convertirsi all'Islam per potersi sposare e farsi accettare e alla fine della storia accetterà di continuare il matrimonio con un esponente della comunità pakistana nonostante sia violento e la minacci costantemente di morte, perché era già stata divorziata una volta.

Siamo giunti alla conclusione di questa recensione critica. Vogliamo sottolineare un ultimo elemento importante. Come sempre i romanzi non nascono dal nulla, ma sono frutto dell'ideologia dominante (come resistenza ad essa o come accettazione) e del suo contesto storico. Non è un caso, dunque, che questo romanzo sia stato scritto nel 2012. Frutto malato delle reazioni scomposte agli attentati dell'11 settembre che hanno provocato la guerra in Afghanistan, in Iraq e in Libia (e speriamo sia finita). Sarebbe il caso che gli intellettuali, però, tornassero al loro ruolo di coscienza critica della società ed abbandonassero la loro iscrizione (con tanto di tessera) nell'attuale circo intellettuale politicamente corretto. E gli stessi critici riprendessero la loro reale funzione "critica" e capissero che definire questo romanzo come un attacco nei confronti dell'integralismo religioso e dell'intolleranza è un insulto alla verità. Aspettiamo con ansia che venga realmente scritto un romanzo di questo tipo, che si sottragga a derive «fallaci» e non legga più intolleranze soltanto da una parte. La donna che mi insegnò il respiro purtroppo non lo è.