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Alla ricerca del tempo perduto: invito alla lettura

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Alla ricerca del tempo perduto 
di Marcel Proust
(À la recherche du temps perdu)

Mondadori, 2005 (8 voll.)
trad. it. G. Raboni


Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust è un romanzo-fiume scritto tra il 1908 e il 1922, anno di morte del suo autore. In estrema sintesi, lo si potrebbe definire la storia di una vocazione letteraria, o, per meglio dire, la storia degli ostacoli soggettivi e oggettivi che la vocazione letteraria del personaggio-narrante ha incontrato e superato. Sebbene narrato in prima persona dal personaggio protagonista, e sebbene il materiale narrativo, i personaggi, i pensieri del narratore siano profondamente radicati nella biografia dell’autore, la Ricerca non è un romanzo autobiografico. Marcel Proust non ha inteso raccontare la sua vita, bensì ha voluto estrarre dai materiali biografici che la sua vita gli offriva un senso che la semplice esposizione di essi non avrebbe potuto determinare. La trasfigurazione letteraria – ossia l’elaborazione stilistica e la composizione degli episodi secondo un preciso disegno – è la chiave di volta dell’operazione proustiana: è ad essa, alla letteratura, che l’autore affida il messaggio da consegnare al lettore. 

L’edizione originale pubblicata a partire dal 1913 conta 7 volumi, a loro volta suddivisi in 15 tomi, ognuno dei volumi ha un proprio titolo e una propria storia filologica ed editoriale. Ma il romanzo proustiano è un’unità inscindibile e la suddivisione in tomi, volumi, capitoli, paragrafi ha un valore sostanzialmente convenzionale e risponde ad esigenze di pratica editoriale: il romanzo non prevede conclusioni provvisorie o cicli interni disgiunti dall’idea generale cui si ispira, non è, per intenderci, un ciclo di romanzi, sebbene alcune sue parti abbiano un’apparente autonomia e siano state pubblicate come narrazioni in sé concluse. Solo l’epilogo, lo svelamento, le “scoperte” contenute nell’ultimo volume, Il tempo ritrovato, danno ragione di tutta la narrazione che lo ha preceduto. 

I volumi sono: Dalla parte di Swann, 1913; All’ombra delle fanciulle in fiore, 1919; La parte di Guermantes, 1920-21; Sodoma e Gomorra, 1921-22; La Prigioniera, 1923; Albertine scomparsa (o La Fuggitiva), 1925; Il Tempo ritrovato, 1927. Gli ultimi 3 volumi sono dunque postumi, ma ciò non vuol dire che la Ricerca sia un’opera incompiuta, perché Proust aveva previsto di morire prima di poter rifinire e perfezionare la sua opera (del resto indefinitivamente rifinibile e perfezionabile), perciò ne aveva consegnato la conclusione ad una serie di quaderni manoscritti dai quali gli editori avrebbero dovuto estrarre i volumi da pubblicare dopo la sua morte. 

A lungo, mi sono coricato di buonora. 
Il romanzo inizia con questa spudorata menzogna, che è anche un sorriso amorevole e, al contempo, canzonatorio nei confronti dell’inesausto tentativo della madre di mandarlo a letto presto. È la frase – provata e corretta più volte, come attestano i brogliacci dello scrittore, tanto per ribadire come la disinvolta naturalità dello stile proustiano sia il frutto di disciplina e di estenuante lavoro scrittorio – è la frase che segna l’assunzione di un punto di vista, quello del personaggio-narrante, diverso da quello dell’autore che gli fornisce i materiali biografici, ma non il suo punto di vista. Il romanzo non svilupperà una vicenda del quale l’autore ha già scoperto il senso. Il personaggio-narrante, e con lui il lettore, dovranno compiere un percorso, dovranno fraintendere, sbagliare, avviarsi su false piste, prima che la Verità, il senso di una vita, illumini retrospettivamente il significato del percorso. Non è l’autore, dall’alto di una Verità acquisita, a parlare (solo saltuariamente e quasi mordendosi la lingua si intrufolerà nel racconto), è il personaggio-narrante, confitto alla stessa altezza dello spazio-tempo narrato, il titolare della parola romanzesca. Così di fronte alla generale incomprensione del primo volume, che per la maggior parte dei lettori non si capiva dove “volesse andare a parare”, lo stesso Proust, nella corrispondenza e nelle interviste, rivendicava il carattere “dogmatico” dell’opera, che solo lo svelamento finale, l’ultimo capitolo (scritto, immediatamente dopo il primo), avrebbe reso evidente. In fondo sarebbe bastato anticipare quelle conclusioni per rendere tutto più chiaro e “godibile”, ma in questo caso la Verità profonda dell’opera sarebbe stata offerta già bell’e pronta, il lettore non avrebbe dovuto scoprirla da sé e dentro di sé, l’effetto estetico e filosofico, cui l’opera proustiana mirava, sarebbe svanito. 

Le fantasticherie dell’uomo in dormiveglia pongono immediatamente il narratore in una situazione liminare, sulla soglia tra la realtà e l’infinito dei mondi possibili. Lentamente, dalla galassia fluttuante delle virtualità narrative emergono dal buio, dall’indefinito, dal caos i corpi astrali che la scrittura, l’affabulazione narrativa, il logos illuminano, definiscono, ordinano. L’uomo in dormiveglia, ulteriore diffrazione tra l’autore e il narratore, sul crinale tra luce e buio, ordine e caos, perdita e recupero passa 
la maggior parte della notte a ricordare la nostra vita d’un tempo a Combray, in casa della prozia, oppure a Balbec, a Parigi, a Doncières, a Venezia, in altri luoghi ancora, a ricordare i posti, le persone che vi avevo conosciute, quel che di loro avevo visto, quello che me ne avevano raccontato. 
Il passaggio dalla realtà biografica alla scrittura è guidato dal lievito della trasfigurazione letteraria che ne serba traccia – come l’ordine mantiene in sé le tracce del caos, la veglia del sonno, la narrazione del saggio, ecc. – e ne impedisce la perdita, l’insignificanza e la nullificazione. 

Motivi, temi, episodi, personaggi, scoperta, verifica ed esposizione di leggi psicologiche, inedita e originale rielaborazione delle categorie ontologiche – spazio, tempo, socialità - , rassegna delle acquisizioni scientifiche più recenti, vertiginose riflessioni estetiche e filosofiche: la Ricerca è un’opera-mondo (un’enciclopedia, una cattedrale gotica…). Sarebbe perciò temerario, se non tracotante, ambire ad una sistematica ed esaustiva trattazione del suo lascito letterario e filosofico. Nemmeno una sterminata bibliografia, che si arricchisce ogni anno di decine di volumi monografici provenienti da ogni angolo del mondo, può riuscirci. E, tutto sommato, non mi sembra questo il compito più urgente o importante cui dedicarsi. Rispetto a tutte le altre opere letterarie (quelle che io conosco, ovviamente…) il romanzo proustiano ha una caratteristica unica: parla direttamente al lettore, non gli fornisce solo insegnamenti, conoscenze, divertimenti o strumenti concettuali di raffinata elaborazione – tutto ciò appartiene al romanzo e all’autore in sommo grado e potrebbero bastare per un romanzo epocale – la Ricerca mostra le forme, le modalità in base alle quali, ognuno secondo le sue qualità, competenze, sensibilità e intelligenza, può attivare in sé un processo di sottrazione al nulla, senza disattivazione irenica dal dolore (perciò in Proust niente stoicismo e niente taoismo), senza superare in una sintesi superiore e utopica le antinomie costitutive dell’essere-al-mondo, senza ricadere nelle spire della trascendenza religiosa o della teleologia storica. 

Paolo Mantioni