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Riscoprendo le opere della dimenticata Maria Messina

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Alla deriva
di Maria Messina
pp 132, Euro 14,90


Le pause della vita
di Maria Messina
pp.168, Euro 14,90

Edizione Croce, 2017






La letteratura è piena di maestri e di allievi, indissolubilmente legati, spesso a torto, da un debito di riconoscenza, da un filo di gratitudine, da una parvenza di fama, che come un’ombra che non li fa risplendere, tarpa le ali a chi segue la strada nel solco dell’esempio. Questa è stata la sorte di una scrittrice complessa e fragile come Maria Messina, autodidatta, con una vita senza radici e segnata dalla malattia, legata alle fortune di un maestro come Verga, che ne riconobbe il merito e, suo malgrado, ne adombrò, col suo sigillo di allieva, le sorti. 

Nella letteratura di inizio Novecento la sua figura brilla di flebile luce, poi diventa fulgido astro per scomparire infine, dimenticata del tutto. Maria Messina, palermitana di nascita (sebbene non esista un atto di nascita) e costretta a peregrinare per l’Italia per il lavoro del padre - Messina, Umbria, Toscana e Napoli le tappe di questo continuo spostamento - morirà a Pistoia nel 1944, a 57 anni, sola, dimenticata e malata. In seguito le sue spoglie verranno portate a Mistretta dove la scrittrice visse a 15 anni tra il 1903 e il 1909 e dove tuttora riposano, e in cui ogni anno si tiene un premio in suo onore. 

Stessa triste sorte è riservata alla sua produzione letteraria, che si dipana tra temi e generi diversi, da quella per bambini, alle novelle ai romanzi, e che giace per anni ingiustamente dimenticata, dopo aver transitato sotto varie etichettature che la accostano ai veristi, ai russi, a Pirandello, a Tozzi e via via ad altri modelli dominanti in voga in quegli anni.  Dopo un esordio in sordina, viene scoperta da Verga, grazie alla forza della sua scrittura e al debole aiuto del fratello, che per primo scrisse al maestro verista, instradando così la corrispondenza e poi la carriera della sfortunata sorella, morta troppo giovane tra le sofferenze della sclerosi multipla. Pubblicata, tra il 1909 e 1928, da editori come Sandron e Treves, recensita con attenzione da Giuseppe Antonio Borgese,che nel 1910 la definì una “scolara del Verga”, poi dimenticata dopo un periodo segnato dalla malattia e dagli stenti.

Bisogna però aspettare gli anni Ottanta per aver di nuovo notizie di questa incredibile scrittrice, anni in cui Leonardo Sciascia si imbatte per caso nella sua produzione e la trova degna di nota, definendola una Mansfield siciliana e convincendo la Sellerio a ristampare le sue opere.

Alla morte dello scrittore racalmutese anche la Messina ritorna nell’oblio. È ancora un uomo a imbattersi per caso in questa autrice e a decidere di dare nuovo lustro alle sue opere, ed è grazie alle Edizioni Croce e alla volontà di Salvatore Asaro, curatore del progetto di rilancio della scrittrice palermitana che possiamo riscoprire alcuni dei suoi romanzi, in particolare Alla deriva, pubblicato per la prima volta nel 1920 ed uscito per le Edizioni Croce nella sua nuova veste, con prefazione di Elena Stancanelli, a febbraio di quest’anno e Le pause della vita (prima edizione 1926) pubblicato con introduzione e cura di Flavia Rossi nel maggio di quest’anno.

Analizzando le due opere possiamo intuire la modernità delle tematiche e la costruzione matura dei personaggi; Alla deriva propone una tematica che ruota attorno a due personaggi, Simonetta e Marcello, che nella loro contrapposizione caratteriale problematica, sono molto vicini all’idea di  eroe ed eroina di certa letteratura russa, divisi dall’estrazione sociale, dalla provenienza geografica e dalle distanze culturali - più dal pregiudizio su queste distanze, che non fa vedere a nessuno dei due quanta vicinanza avrebbe potuto avere la loro relazione a livello emotivo, superando le barriere delle convenzioni - ma vicini grazie all’amore. Proprio l’amore sarà forza disgregante, pulsione di morte e non di vita, che tutto porterà lentamente al tracollo, alla deriva appunto.



In un incalzante dialogo intimo a distanza, la voce narrante ci presenta le paure dei due protagonisti, con uno stile che rende omaggio alla poetica dell’impersonale verghiano ma che lo supera in partecipazione (e in questo suo stile si capisce come in qualche modo potesse essere accostata al verismo, peraltro in un momento in cui il verismo aveva già superato la sua fase di notorietà e successo), con un ritmo spezzato ricco di pause dovute al richiamo anaforico del protagonista, soprattutto nella parte centrale, quasi a voler riportare il discorso di volta in volta sul personaggio e i suoi sentimenti. Attorno a queste due figure di giovani la società che li circonda, la parte borghese che è ostile e che giudica, quella contadina che sa di famiglia e che accoglie, consiglia, rimprovera e accudisce. Rispetto ai personaggi verghiani che nascono senza scampo, senza altra speranza di futuro che non sia la fine, condannati a tuffarcisi dentro, i personaggi della Messina hanno a disposizione la via di fuga, ma preferiscono non vederla, accecati da ciò che deve essere fatto, da ciò che gli altri suggeriscono loro, non riescono ad avere la forza per guardarsi dentro, sono in qualche modo specchio delle difficoltà di un’isola che potrebbe avere la forza di emergere, di salvarsi, ma lo capisce tardi, quando ormai la fine è vicina e la condanna è inevitabile.
Ma forse non c’è più posto per lui nella tiepida cucina, piena di lunghe ombre scure e di rosse luci, che lo vide bambino. Era diventato un uomo, un uomo che deve buscarsi il pane che mangia e non è compatito se falla. Non avrebbe più potuto vivere come allora, e pur non sapeva vivere come adesso.
Nemmeno il frutto di un amore può essere salvifico quando la rassegnazione dell’animo alla sconfitta si insinua come un cancro a ricordarci l’errore che fu, la battaglia che non doveva essere intrapresa, e che per ostinazione non si volle riconoscere in tempo, in amore come in guerra.
Qui neppure si può restare.Si tratta di chiudere la vita.Si vede in mezzo a una folla di soldati, lontano. Ognuno porta nello zaino il suo fardello di dolore e di amore che lo segue ovunque. E chi più soffre è più eroe; come chi è più felice e incosciente è più eroe.Getta la sua vita sull’altare della Patria, come un’offerta, chi non sa quanto valga la vita, e la getta chi sa quanto valga e non può mai più signoreggiarla.
Le pause della vita regala un’ambientazione totalmente diversa, non c’è più la Sicilia, perché tutto si svolge in Toscana e soprattutto la scena è tutta della protagonista femminile, Paola Mazzei. Una figura di donna profondamente anticonvenzionale e complessa, cresciuta in un ambiente non contadino ma borghese, che attraverso delle scelte dolorose e impopolari per l’epoca, pagherà a duro prezzo la colpa di non volersi piegare alle tradizioni, di voler obbedire solo a se stessa, di voler far prevalere la parte razionale su quella emotiva, per non sottomettersi agli obblighi di una società che ha già scelto per lei un destino di moglie. O forse nella vita di Paola troviamo l’eco della vita di Maria, che come la sua protagonista si insinua nella vita dei suoi personaggi, vive delle loro passioni, si duole delle loro sconfitte, come di quelle della sua vita
Ella voleva bene all’eroina del romanzo. Aprendo il noto libro, un po’ sciupato ormai, si abbandonava all’illusione di entrare nel “cottage” dei Cleanlove i quali non erano, oh, no, i personaggi di un romanzo, ma i buoni amici della adolescenza, i sereni compagni delle grigie ore d’ufficio.
Ingiustamente dimenticata, Maria Messina merita un posto nell’universo della letteratura italiana, non solo meridionale, come da tempo lo ha conquistato fuori Italia, soprattutto in prestigiose Università, dove le sue opere vengono esaminate da studiosi e appassionati, che la considerano una scrittrice moderna e da rivalutare.

Samantha Viva