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Pillole d'autore: Calvino e le Lezioni americane

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Six Memos for the Next Millennium è il titolo provvisorio che Calvino decise di dare alla raccolta delle sei conferenze che avrebbe dovuto tenere alla Harvard University nell’anno accademico 1985-86. Queste lezioni si sarebbero svolte nell’ambito delle Norton Lectures, una tradizione che prese avvio nel 1926 e che portava ogni anno nell’Università americana grandi personalità del tempo, da T. S. Elliot a Stavinsky a Borges. Calvino fu il primo scrittore italiano ad essere contattato per questo prestigioso incarico, ma non arrivò mai a pronunciare pubblicamente le sue conferenze. Un ictus lo colpì prima che potesse mettersi in viaggio per gli Stati Uniti.

È alla moglie Esther che dobbiamo il privilegio di potere leggere ancora oggi le stesure di cinque di quelle sei lezioni: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità. L'ultima, che si sarebbe intitolata Consistency, non era stata completata in quanto Calvino avrebbe rielaborato i suoi appunti una volta giunto ad Harvard. Dietro a queste conferenze c’era un progetto di estrema lungimiranza, quello di creare un ponte tra il vecchio millennio e  il nuovo, fatto di ideali, six memos appunto, da custodire e proteggere da una modernizzazione a volte troppo aggressiva, che rischia di farci dimenticare da dove veniamo. Di questi valori fornisce esempi tratti dalla letteratura, per riscoprire gli autori delle nostre radici culturali, ma non solo. Il suo talento poliedrico e la vivace curiosità lo avevano spinto ad approfondire tematiche proprie anche di altri campi, dalla scienza alla filosofia, facendo emergere da questi scritti una figura di intellettuale a tutto tondo, un uomo di straordinaria cultura.
Per quanto ormai le Lezioni americane, titolo che dobbiamo al modo con cui Citati si riferiva all’ultimo sforzo letterario dell’amico Calvino, siano state scritte quasi trent’anni fa, stupisce e in un certo modo sconcerta vedere come le intuizioni dell’autore si siano rivelate esatte. Senza sforzo le stesse avvertenze, le stesse riflessioni e gli stessi scenari prospettati in quest’opera potrebbero essere il frutto di pensieri ed elaborazioni di scrittori contemporanei.

Edizione di riferimento: I. Calvino, Lezioni americane, Oscar Mondadori, 2012

Da Leggerezza


Quando ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l’imperativo categorico di ogni giovane scrittore. Pieno di buona volontà, cercavo di immedesimarmi nell’energia spietata che muove la storia del nostro secolo, nelle sue vicende collettive e individuali. Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle.

Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo [Cavalcanti descritto da Boccaccio nel Decameron (VI, 9)] che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite.

La luna, appena s’affaccia nei versi dei poeti, ha avuto sempre il potere di comunicare una sensazione di levità, di sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo. In un primo momento volevo dedicare questa conferenza tutta alla luna: seguire le apparizioni della luna nelle letterature d’ogni tempo e paese. Poi ho deciso che la luna andava lasciata tutta a Leopardi. Perché il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso, fino a farlo assomigliare alla luce lunare.


Da Esattezza


Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione, corrisponda ad un’intolleranza verso il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico ad essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno ad eliminare le ragioni di insoddisfazione di cui posso rendermi conto. La letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze- è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere.
C’è chi crede che la parola sia il mezzo per raggiungere la sostanza del mondo, la sostanza ultima, unica, assoluta; più che rappresentare questa sostanza la parola si identifica con essa (quindi è sbagliato dire che è un mezzo): c’è la parola che conosce solo se stessa, e nessun’altra conoscenza del mondo è possibile. C’è invece chi intende l’uso della parola come un incessante inseguire le cose, una approssimazione non alla loro sostanza, ma all’infinita loro varietà, uno sfiorare la loro multiforme inesauribile superficie. Come Hofmannsthal ha detto: “La profondità va nascosta. Dove? Alla superficie”. E Wittgenstein andava ancora più in là di Hofmannsthal , quando diceva: “Ciò che è nascosto, non ci interessa”. Io non sarei tanto drastico: penso che siamo sempre alla caccia di qualcosa di nascosto o di solo potenziale o ipotetico, di cui seguiamo le tracce che affiorano sulla superficie del suolo. Credo che i nostri meccanismi mentali elementari si ripetono del Paleolitico dei nostri padri cacciatori e raccoglitori attraverso tutte le culture della storia umana. La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata o temuta, come un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto.  Per questo il giusto uso del linguaggio per me è quello che permette di avvicinarsi alle cose (presenti o assenti) con discrezione e attenzione e cautela, col rispetto di ciò che le cose (presenti o assenti) comunicano senza parole.


Da Visibilità


Ma c’è un’altra definizione nella quale mi riconosco pienamente ed è l’immaginazione come repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere.
Quale sarà il futuro dell’immaginazione individuale in quella che si usa chiamare la “civiltà dell’immaginazione”? Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in un’umanità sempre più inondata da dal diluvio delle immagini prefabbricate? Una volta la memoria visiva di un individuo era limitata al patrimonio delle sue esperienze dirette e a un ridotto repertorio di immagini riflesse dalla cultura; la possibilità di dar forma a miti personali nasceva dal modo in cui i frammenti di questa memoria si combinavano tra loro in accostamenti inattesi e suggestivi. Oggi siamo bombardati da una tale quantità di immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione.
Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini. Penso ad una possibile pedagogia dell’immaginazione che abitui a controllare la propria visione interiore senza soffocarla e senza d’altra parte lasciarla cadere in un confuso, labile fantasticare, ma permettendo che le immagini si cristallizzino  in una forma ben definita, memorabile, autosufficiente, “icastica”.