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Criticalibera: Alla ricerca del tempo perduto: la vita di un romanzo. Parte seconda

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Nel 1907 un terribile caso di cronaca nera lo sfiora molto indirettamente, ma lo riporta sulle piste della scrittura. Il giovane Henri van Bladerberghe, che Proust aveva conosciuto qualche anno prima e con il quale aveva avuto un breve scambio epistolare centrato sulla perdita dei genitori, in un accesso di follia uccide la madre e, subito dopo, se stesso. Calmette, l’influente direttore del Figaro che già aveva ospitato articoli di Proust, saputo che lo stesso Proust era in possesso di lettere di Bladerberghe proprio sull’amor filiale, gli commissiona un articolo di commento. Ne risulta lo splendido “pezzo”, Sentimenti filiali di un parricida, nel quale lo scrittore fa in qualche modo i conti con i suoi sensi di colpa, non tanto per liberarsene, quanto per assumerli in carico, per scioglierli in un più complesso ed elevato percorso di redenzione e riscatto esistenziale. Sempre sul Figaro, nel 1908, cominciano ad uscire i Pastiches, anch’essi legati alla contingenza cronachistica: un’ingegnosa e clamorosa truffa, finita su tutte le prime pagine dei giornali dell’epoca. In essi Proust immagina che alcuni scrittori del passato e contemporanei (Balzac, Flaubert, Sainte-Beuve, Regnier, ecc.) redigano articoli sulla faccenda. Ne imita lo stile, parodiandone i tratti più peculiari e riconoscibili. Si tratta di vera e propria “critica letteraria in atto” e, per lo scrittore, di una sorta di liberazione dalle voci estranee che ingombravano la via per trovare la propria voce, il proprio stile, il proprio temperamento letterario, una specie di godibilissimo esercizio di “igiene stilistica”.
Nel frattempo, sempre comunque tormentato dalla malattia, riprende una moderata vita mondana. Passa l’estate del 1907 a Cabourg (dove tornerà tutti gli anni fino al 1914), modello dell’immaginaria Balbec del romanzo, “perdendo” di nuovo il suo tempo tra serate di gala, casinò e tentazioni omosessuali rappresentate dai giovanotti disinvolti ed eleganti che affollano la stazione turistica (che saranno magnificamente trasfigurati nell’”onda delle fanciulle in fiore”). Ne torna più malato che mai e più che mai convinto che non è quella la vita che vuole, non è quello il destino cui è chiamato. Tentenna, resiste, tenta di ideare improbabili soluzioni di compromesso, sei mesi da solo a Parigi e sei mesi a Versailles con il nuovo amico René Pater, alla fine si decide: deve isolarsi, compiere una scelta tragica e definitiva, ascoltare il suo io interiore, diventare il “gufo che vede un po’ chiaro soltanto nelle tenebre”. Dall’aver ubbidito all’incondizionato dovere morale – lo stesso che ha spinto, migliaia di anni fa, il nostro antichissimo antenato a lasciare un attimo, qualche minuto, un’ora o forse una vita intera, il gruppo di cacciatori-raccoglitori per scendere nelle grotte di Lascaux, e di chissà quanti altri posti, per tracciare sulla parete i segni della caccia appena conclusa o che, tutti, si apprestavano a vivere – da qui comincia l’affascinante vita della Ricerca del tempo perduto.


Non ho intenzione di riproporre, né condivido, una lettura agiografica della biografia di Proust, secondo uno schema che ad un’infanzia serena e felice, diciamo pure “viziata” dalle cure di una madre indulgente e apprensiva, funestata però da una salute malferma, fa seguire il tempo della dissipazione, quello del “fiore all’occhiello”, bruscamente interrotto e trasformato nell’anacoresi dell’artista autoreclusosi nella stanza tappezzata di sughero, scaldato solo dal sacro fuoco dell’Arte. No, in Proust tutto è relativo, in movimento, concreto. Solo l’esigenza discorsiva rende indispensabile distinguere e separare ciò che è contemporaneo, ciò che ha varietà di tono e di colore, ma non netta separazione. Il bambino e l’adolescente Proust, “viziato” e pigro, lottava anche con la sua malattia, ne chiedeva ragione a sé e al mondo, scopriva le delizie della lettura e i tormenti dell’omosessualità, subito interpretata in una prospettiva filosofica e letteraria, eppure vissuta come perdita dell’innocenza, come colpa. Il giovanotto dal “fiore all’occhiello” adulava spudoratamente i personaggi influenti del bel mondo parigino (Montesquiou, Anna de Noailles, Anatole France, ecc.), scriveva articoli mondani per i giornali alla moda, e contemporaneamente si faceva quasi un attivista politico, in barba alle sue predilezioni aristocratiche, promuoveva la revisione del processo Dreyfus, faceva passare nella sua opera d’esordio temi e motivi tutt’altro che futili, lottava accanitamente in famiglia per salvaguardare la sua libertà da ogni altra occupazione che non fosse letteraria, e scriveva un romanzo autobiografico bello e profondo, che però non lo soddisfaceva. Anche l’anacoreta della scrittura non ha mai abbandonato del tutto le frequentazioni frivole e non ha rinunciato alla pratica del “vizio”, talora in forma aberrante (bordelli per soli uomini, sadismo, profanazione dei ricordi più teneri – e in tema di stupefacenti anticipazioni, va ricordato che a 17 anni l’imberbe e quasi del tutto innocente Proust aveva scritto che il difetto sul quale si sentiva di essere più indulgente era “la vita privata dei geni”).

Nella vita di Proust tutto è relativo, ma Proust non è né un adepto, né, tanto meno, un campione del relativismo assoluto, anticamera, come si sa, del nichilismo. L’infaticabile volontà di analisi, la liberazione progressiva dai condizionamenti familiari, sociali, storici, razziali non scopre il Nulla, il vuoto della condizione umana, trova, bensì, il nocciolo infrangibile dello spirito vitale innervato dall’autenticità del dolore, che, attraversato fino in fondo, si trasforma nella gioia di esistere al di là delle provvisorie determinazioni familiari, sociali, storiche e razziali. Si tratta di una gioia analoga a quella dell’esperienza estetica perché sottrae il soggetto dalle spire della “mediocrità, della contingenza, della mortalità”. Parafrasando e parodiando la celebre formula cartesiana con Proust si potrebbe dire “soffro, dunque sono” e accostando ad essa una meno celebre e più profittevole formula camusiana (“mi ribello, dunque siamo”), si potrebbe correggere in “soffro, dunque siamo”. Nel romanzo la fondamentale scoperta proustiana è trasfigurata nelle esperienze extratemporali che ne costellano lo svolgimento e che nell’ultimo capitolo, intensificandosi e ravvicinandosi, inducono il Personaggio-Narratore a riconoscere e perseguire il suo dovere incondizionato: rivivere e far vivere al lettore l’esperienza estetica come elevazione di sé e senso, provvisorio, della vita.

Dopo il fallimento del Jean Santeuil, Proust può aver dubitato del suo talento di scrittore, ma, credo, non ha mai dubitato di avere una particolare predisposizione per la lettura, per l’immediata percezione dei valori letterari ed estetici di un’opera. Dunque nel 1908 riparte da lì: sente di avere qualcosa d’importante da dire sulla letteratura e sull’arte, perciò progetta un saggio letterario per dimostrare l’inefficacia e la vacuità del celebrato metodo Sainte-Beuve, che fondava l’interpretazione critica dell’opera sui dati biografici dell’autore, legandola grossolanamente a quello che Proust considerava l’io superficiale dello scrittore, l’io prodotto dalle relazioni sociali e dalle contingenze storico-biografiche. Secondo Proust nell’opera letteraria non è quell’io che parla, ma un io più profondo, spesso in contrasto e comunque diverso da quello pubblico e comunemente conosciuto.

In Proust tutto è relativo, per meglio dire, tutto è complesso e contraddittorio, sicché il saggio su Sainte-Beuve (mai realizzato, come si vedrà) è un progetto pro domo sua, e diventa una riflessione molto personale sul rapporto tra biografia e opera, tra materiali autobiografici e trasfigurazione letteraria. Come poteva il Proust del “tempo perduto”, pigro, frivolo, vizioso, produrre l’opera in grado di salvare il Proust che aveva autenticamente sofferto e gioito, che aveva attinto dall’autenticità dell’esperienza estetica un senso non “mediocre, contingente e mortale” della propria vita? Evidentemente non si trattava tanto di zittire Sainte-Beuve, piuttosto di scovare e far parlare quell’io profondo.

Non solo: il saggio stesso, genere letterario quant’altri mai rigoroso e distaccato, nasce con uno sfondo narrativo che ne mina dall’interno le regole. Proust immagina di esporre le sue considerazioni sul metodo Sainte-Beuve alla madre durante un confidenziale e tenero colloquio mattutino. Dunque l’origine della Ricerca ha un’impronta dialogica, informale, apparentemente svagata, o comunque debolmente strutturata. A grado che la scrittura progredisce, la tensione narrativa si fa sempre più urgente, i ricordi d’infanzia, gli episodi della propria vita sempre più si distaccano dal progetto saggistico e sempre più diventano la “carne viva”, la dimostrazione in atto della sua idea di letteratura. Le parti s’invertono: il saggio diventa lo sfondo della narrazione. E anche quando il romanzo proustiano rientrerà quasi del tutto nella griglia del genere letterario, manterrà un importante aspetto saggistico, che comunque lo farà oscillare ai margini, alle estremità della codificazione di genere.

Di tutto il lavoro preparatorio rimangono poche tracce nella redazione definitiva della Ricerca, ed è stato pubblicato postumo sempre da Bernard de Fallois nel 1954 con il titolo Contro Sainte-Beuve. In generale, occorre tener presente che la redazione definitiva della Ricerca è il risultato di un accanito lavorio di scrittura, e che quasi ogni singola parte o episodio è stato scritto e corretto, riscritto e spostato decine di volte a seconda delle parti nuove che lo scrittore veniva ideando e scrivendo e a seconda dei nuovi fini che vi veniva scorgendo durante la redazione. Prova ulteriore, questa, del carattere non autobiografico dell’opera proustiana. Di tutto questo lavorio, Proust, il castigatore dei filologi, lo scrittore della perfetta naturalità stilistica, il dettatore estemporaneo di memorie, ha lasciato tracce manoscritte e dattiloscritte in agende, quaderni e bozze stampate e quasi pronte per la pubblicazione e che fanno della redazione definitiva della Ricerca un immenso iceberg sostenuto da una pressoché illimitata base sotterracquea.