Monique evade
di Édouard Louis
La nave di Teseo, 2025
Traduzione di Annalisa Romani
pp. 131
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
È una sera di febbraio quella in cui la madre telefona. Sta piangendo, l’uomo con cui convive da sette anni a Parigi ancora una volta ha bevuto troppo e la insulta, deride, mortifica. La donna non ce la fa più, è la seconda volta che si trova ad affrontare una situazione del genere: anche il padre di Édouard e dei suoi fratelli l’aveva tenuta per anni in uno stato di assoggettamento e annichilimento. L’allontanamento da lui e da tutto ciò che rappresentava era sembrata l’occasione per un nuovo inizio. Invece, non molto tempo dopo, in un contesto diverso e con un uomo diverso, si sono riprodotte dinamiche straordinariamente simili.
Mi ricordo di aver letto in un libro di storia che un giorno erano stati ritrovati scheletri di donne del neolitico con le ossa spezzate dalla violenza degli uomini. La violenza che stava vivendo mia madre portava l'odore delle grotte e delle caverne della preistoria, l'odore della violenza millenaria. (p. 17)
Da Atene, dove si trova per lavoro, il figlio osserva e presiede la fuga. È in
ambasce, teme che tutto possa andare storto, non crede davvero nella forza e
nella risolutezza della madre. Sa che la
stanchezza, mentale prima che fisica, può giocare brutti scherzi, togliere
ogni energia e smontare ogni proposito. Si rende conto che spezzare i vincoli di una relazione tossica è come interrompere una
dipendenza: tanto più è radicata, tanto più è difficile farlo in maniera netta.
Quella di Monique è una storia che vale per molte altre, pur restando
indiscutibilmente unica:
Mio padre le aveva telefonato per supplicarla di tornare e lei aveva ceduto: come avrebbe potuto farcela, senza soldi, senza diplomi, senza patente, senza formazione professionale, sola con cinque figli? (p. 32)
Il racconto di Edouard Louis indaga la natura della violenza. Violenza non è infatti soltanto quella fisica, verbale o psicologica degli uomini che per tutta la vita hanno circondato Monique pensando di poterla governare. Violenza è esclusione, violenza è anche figlia di un’ignoranza sostanziale che impedisce di percepire la complessità del reale, di poterlo interpretare e districare, di muoversi al suo interno.
mia madre non aveva mai imparato a usare un computer così come non aveva mai imparato a guidare né seguito una formazione professionale. Tutte quelle assenze nella sua vita facevano parte dello stesso sistema. (p. 36)
Il contesto disagiato da cui i personaggi provengono (una piccola comunità rurale nel nord della Francia), pare esserne una delle prime cause, piuttosto che una conseguenza. Anche per questo la prima evasione – quella di Édouard, che sceglie di allontanarsi dalla via nota per dedicarsi agli studi e alla scrittura – è anche ciò che fornisce i mezzi (economici, in questo caso, ma non solo) per la seconda evasione, quella della madre. L’evasione è una questione di classe: chi appartiene a un livello sociale medio-alto non farà mai l’esperienza del vuoto materiale perché
quando loro dicono che non gli resta più niente, gli resta sempre qualcosa,
gli restano i diplomi,
gli resta la cultura,
gli resta qualche spicciolo,
gli restano delle relazioni che li aiutano,
gli resta la volontà conferita dai privilegi. (p. 66)
Al contrario, Monique e le donne come lei non hanno accesso al conto corrente, non hanno niente di proprio da parte, sono da troppo fuori dal mondo del lavoro, o fanno lavori umili e non sempre ben retribuiti, non hanno una casa dove andare, sono rimaste tagliate fuori dalla rete delle amicizie… per loro la fuga da una situazione sempre più simile a una prigione è però anche un salto nel vuoto, che non tutte hanno la forza o il coraggio di compiere. La violenza è infatti spesso anche subordinazione economica, e non a caso il sottotitolo del volume è “il prezzo della libertà”.
Mentre ascoltavo Didier mi chiedevo: sua madre se ne sarebbe andata se non avesse fatto la donna delle pulizie? Se non fosse stata così povera? Bastano le esigenze economiche a spiegare, per lei o per altre, e almeno in parte, l'impossibilità di evadere? (p. 69)
La libertà passa attraverso tante piccole acquisizioni: poter dire io invece di noi, avere accesso al digitale, sperimentare cibi nuovi.
L'esclusione che aveva strutturato la materia della sua vita si giocava in dettagli minuscoli, talmente minuscoli, la ascoltavo e pensavo: a più di cinquant'anni non ha ancora mai sperimentato certi sapori, mai provato certe sensazioni gustative, come una forma di espropriazione culinaria e sensoriale. Quando pensiamo all'espropriazione, alla povertà, pensiamo alla difficoltà di comprare vestiti o di pagare le bollette, ma non pensiamo a queste cose, ai sapori, agli odori, alle sensazioni mai provate. (p. 61-62)
Nel parlare della madre, l’autore tende inizialmente a scivolare comunque verso
di sé. Anche nel ripercorrere la loro relazione difficile nel passato, la
formula ricorrente è «io mi sentivo
perseguitato». Allo stesso tempo, questa ricorsività, legata
inestricabilmente ai sensi di colpa,
diventa un percorso di consapevolezza
(«quanti anni ci vogliono per iniziare a
vedere la realtà della propria infanzia?», p. 67) e Monique, poco alla volta, diventa
un’entità autonoma, un soggetto con una sua singolarità, anche per il suo
stesso figlio.
La donna inizia a dire i suoi no, a proporre (mai a imporre) la
sua volontà, a reclamare ciò che ritiene le spetti, dal diritto al riposo e al diniego ai mobili della madre da recuperare
dalla casa del compagno, che diventano un segno materiale della possibilità di
iniziare una nuova vita. Monique diventa materiale
refrattario a ogni forma di manipolazione, fosse anche quella di chi pensa
di agire per il suo bene e nel suo interesse. La libertà diventa una questione tangibile, concreta, che deve
necessariamente passare attraverso i dettagli del vivere quotidiano per potersi
dire reale. Ha bisogno di una rendita e di «una
stanza tutto per sé», come diceva cent’anni prima Virginia Woolf, citata
nell’opera.
Tutto nel breve volume di Louis rappresenta una sfida alla letteratura: la forma, volutamente asciutta,
minimale, e il contenuto, che si rifiuta di farsi simbolico ed evocativo per
restare sempre ancorato a una realtà che ha ben poco di poetico. Monique fugge, ma altre donne non lo fanno,
non possono o non vogliono. Non c’è
celebrazione, non c’è merito nella fuga, così come non c’è giudizio o
demerito nel rimanere. Ci sono opportunità che, in questo caso, una donna ha
colto, ma c’è anche la complessità del dopo («la fuga è un fardello» ripete Louis a p. 89). C’è la consapevolezza
che il mondo è pieno di piccoli uomini
che perpetrano un modello che hanno assorbito dalla società circostante, e che
l’unica cosa che vale la pena di essere fatta è investire ogni energia nel cercare di non essere come loro, di
uscire da un solco che pare scavato profondamente.
La letteratura può bastare?, si chiede a un certo punto l’autore. E la risposta
è no, che non basta, certo da sola non salva. Eppure l’arte può trasfigurare, sublimare, fare di un’esperienza un riferimento e una speranza. Nel procedere
della narrazione, l’evasione si trasmuta, assume la forma di un viaggio, non solo in senso
metaforico, ma che del metaforico mantiene tutta la valenza: il superamento dei
confini, la prova di sé, l’occasione della resa dei conti, il riconoscimento
dei traguardi raggiunti. Il libro stesso è il frutto di questo viaggio, di
questa vittoria. Della volontà esplicita di una donna che ha ritrovato se
stessa e che chiede di essere raccontata per potersi finalmente vedere dal di fuori,
per essere finalmente vista.
Se la libertà non è una rivincita allora non è una libertà, ecco come la penso. (p. 121)
Carolina Pernigo
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