di Fumio Yamamoto
Neri Pozza, ottobre 2025
Traduzione di Gala Maria Follaco
pp. 224
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)
Ero disoccupata ormai da due anni. All'inizio l'etichetta "trentaquattrenne disoccupata" mi sembrava il contrassegno di una criminale, la trovavo terrificante, ma mi bastò poco per farci l'abitudine. lo stessa trovo incredibile la mia capacità di adattamento. Ormai ero perfettamente a mio agio in quella situazione di "trentaseienne disoccupata". Due anni prima mio marito aveva deciso di divorziare e io, che ero un'impiegata della sua stessa azienda, persi automaticamente anche il lavoro. Dopo un breve periodo di urla e pianti nel tentativo di resistere a quella serie di sfortunati eventi, accettai, con sorprendente nonchalance, di ricevere gli alimenti, cancellarmi dallo stato di famiglia e andarmene di casa. Mi chiedo ancora come abbia fatto a essere così distaccata. (p. 47)
Scomparsa prematuramente nel 2021, Yamamoto Fumio (pseudonimo di Ōmura Akemi) pubblica questa raccolta di racconti nel 2001 col titolo Puranaria (titolo che dà il nome al primo racconto della raccolta, Planaria) e si aggiudica il Premio Naoki. 
Si tratta di cinque racconti lunghi, molto densi, compatti, come fossero fatti di cemento. Le voci narranti sono sempre quelle delle protagoniste tranne l'ultima, nel racconto Un domani pieno d'amore, in cui la storia del personaggio femminile Sumie viene raccontata dal suo capo e amante Majima. 
Le donne di Yamamoto sono accomunate – come ci suggerisce il titolo – dal modo in cui si rapportano al mondo del lavoro: caratterialmente, quasi tutte, sembrano inette, indolenti, pigre, alcune dichiarano senza remore di non voler lavorare, altre lavorano ma pagando un prezzo molto alto. Tendenzialmente, le protagoniste femminili della raccolta sono disoccupate e con relazioni saltuarie, divorziate o single.
Nel primo racconto, Planaria, Haruka vive una vita ordinaria schiacciata dalla routine: un compagno, dapprima nessun lavoro (poi, grazie a una conoscente, comincerà a lavorare svogliatamente in un negozio di dolci tradizionali) e un diagnosi pregressa di tumore al seno ormai quasi del tutto superata. La malattia di Sumie è per lei la scusa per autocommiserarsi o per ironizzare in modo macabro? Il dubbio resta, ma l'idea che ci si fa del personaggio è che si sia completamente identificata (e lo ammette lei stessa) con la sua malattia, che oltre a superare quella lei non debba più sforzarsi a fare nulla. 
Perciò, quando incontra degli amici insieme al fidanzato, e questi le chiedono che lavoro faccia, lei si sente in diritto di rispondere: «non lavoro perché ho un tumore al seno». Il dilemma, per questa donna è superare o meno questa autoimposizione.
Nel secondo racconto Izumi condivide con Haruka l'indolenza e la pigrizia, e un'offerta di lavoro inaspettata (anche lei è sfaccendata e arrendevole). Economicamente sta meglio di Haruka e in passato era stata una donna di successo, ma dopo il divorzio ha scelto di smettere di lavorare. Ora tutto quel tempo libero la riempie di dubbi.
E così, dall'infanzia ai trent'anni, pensai che non mi mancasse nulla. Oggi non credo di aver preso un abbaglio, ma è certo che quello che consideravo essere un terreno solido era in realtà uno strato di ghiaccio sottilissimo. E quando andò in frantumi così, al primo scossone, e mi ritrovai sommersa in acque gelide, a salvarmi dalla morte fu un'inattesa corrente di acqua tiepida chiamata "tempo libero". Passare le giornate stesa a letto o sul divano mi risultava più semplice di quanto pensassi, anche perché non avevo alcuna motivazione né obiettivo per fare altrimenti. Dormii non so quante ore e poi mi svegliai. Non avendo preso il giornale, non sapevo in che mese fossimo, in che giorno, né in quale punto della settimana, e il televisore era rotto da tempo e non l'avevo ancora fatto riparare. Accesi la radio e sentii che stavano trasmettendo il programma di mezzogiorno. Uno che non avevo mai ascoltato quando lavoravo. (p. 53)
La domanda che viene spontanea è: queste donne sono depresse? Stanno vivendo una situazione per cui il rifiuto di lavorare, di rapportarsi agli altri, di relazionarsi alla società, è in realtà un disagio più profondo? 
Sembra risponderci affermativamente la terza protagonista della raccolta, Kato, una donna di quarantacinque anni, con un marito e due figli che non la sopportano e che si sacrifica per fa quadrare i conti lavorando part time nelle ore notturne in un supermarket. In questo caso, il personaggio femminile lavora, e anche con grande serietà, ma i suoi sforzi non vengono apprezzati: sua figlia la detesta, suo figlio pensa sia una debole, il marito è un buono ma fa il minimo indispensabile. 
Inoltre, se l'inettitudine delle prime due si concentrava sul modo di approcciare al lavoro, qui Kato viene definita dai figli stessi e dalle sue azioni molli e poco severe come una madre ignava. 
Un'altra differenza c'è: alla fine esploderà in un gesto inconsulto, cosa che nessun'altra delle protagoniste della raccolta fa. 
Il dilemma in questo racconto è se continuare a essere docile e ignava o se mandare tutto al diavolo.
Le donne di Yamamoto sono donne ordinarie con problemi ordinari. Non sono powerful and indipendent women, non sono self-made women, niente di tutto questo: donne le cui vite si potrebbero definire banali, ma che in realtà nascondono tra le pieghe dell'arrendevolezza molto del mondo attuale in cui viviamo. Kato subisce una molestia sul lavoro; Izumi pensa di essere una perdente; Haruka ha un rapporto d'amore e odio con i genitori, e se aggiungiamo anche le ultime due protagoniste della raccolta, la tendenza viene confermata.
Il dilemma di Mito, nel quarto racconto, è se sposarsi o meno. Lei non ne è tanto convinta - ha solo venticinque anni e lavora già in una grande azienda (qui il lavoro è presente) e inoltre il compagno è ancora uno studente - perciò tentenna. Tradisce ripetutamente Asaoka, il suo fidanzato, ha un rapporto difficile con un padre-padrone, e condivide con Haruka e Izumi l'indolenza. 
Perché non rifiutare categoricamente? Il compagno le piace, ma non ne è innamorata e nemmeno fanno sesso. Questo comportamento comune a tutte le donne di Yamamoto diventa quasi esasperante (anche se bisogna tenere a mente che la cultura giapponese tende a sottomettere il proprio tornaconto in favore dell'educazione e del rispetto degli altri):
Sumie, invece, l'ultima donna della raccolta la cui storia viene raccontata da un uomo (si ha un momento di frastornamento quando ci si fa caso) sembra risollevare un po' le sorti di tutte: nonostante non voglia lavorare - ecco che torna questo tema - e si faccia mantenere da tutti gli uomini che incontra, quantomeno una decisione la prende: essere libera. 
Il suo capo e voce narrante, Majima, le permette di leggere la mano nella sua izakaya in cambio di consumazioni, e poi ne fa la sua amante, ma non gli riesce né di tenerla lontano da altri uomini clienti del locale né di convincerla a lavorare per lui come cameriera o aiuto cuoco. 
Sumie non vuole lavorare. Punto. Vive alla giornata, dorme all'addiaccio, scrocca cibo e vestiti, ma non sembra preoccuparsene granché. 
Stavo per dirle che non intendevo quello, ma mi fermai. Non ero certo che rispettasse un qualche vincolo di castità quando era con altri, e in ogni caso non avevo alcun diritto in tal senso. Pulii in silenzio i pavimenti e il bagno, e quando tornai al bancone aveva già rimesso tutto a posto, cosi ce ne andammo via insieme. L'asfalto era leggermente imbiancato, ma quella che cadeva dal cielo non era più neve, bensì pioggia fredda mista a nevischio. «Che freddo!» esclamai aprendo l'ombrello, e lei si aggrappò al mio braccio con tutte e due le mani. Per quanto cercassimo di tenerlo segreto, sapevamo che un giorno i clienti avrebbero scoperto la nostra relazione. Non che fosse un grande problema, ma mi seccava un po' far sapere che stavo con una di loro. Se almeno avesse lavorato per me, anche part time, sarebbe stato diverso, ma lei aveva rifiutato categoricamente la mia proposta giusto pochi giorni prima. Di lavorare da me proprio non voleva sentir parlare. Mi aveva risposto, ma non con tono minaccioso, anzi piuttosto gentile, quasi di compassione, che se avessi cercato di obbligarla mi avrebbe lasciato. (p. 176)
Quello che la distingue dalle altre protagoniste è la dinamicità: decide per sé, anche quando fa la gatta morta per farsi comprare un maglione da un cliente della locanda, non si fa problemi a flirtare con altri uomini sotto gli occhi di Majima, se qualcosa non le va bene sparisce, non dà spiegazioni a nessuno, tanto in qualche modo se la cava sempre.
Seppure in alcuni frangenti abbia la tentazione a calare la testa, la sua indolenza e svogliatezza non sono sottomesse agli altri ma solo a se stessa. Decide di vivere in quel modo e per lei va bene così. 
Certo, il lettore si domanda che vita sia la sua, ma come si dice? Chi si fa gli affari suoi campa cent'anni, e se Sumie si autodetermina in questo modo, beh, chi siamo noi (o Majima) per metterle i bastoni tra le ruote? E poi, a fare e dire certe cose, soprattutto quelle che vanno contro il buon senso comune, ci vuole coraggio.
In generale questo testo mi è piaciuto davvero tanto. Lo trovo attualissimo e le sue protagoniste sono così vicine a noi, ai nostri problemi, che sembrano storie di amiche. Chi non ha mai avuto dubbi sul proprio lavoro o sul proprio partner? Chi, almeno una volta, non ha pensato di mollare tutto? I personaggi femminili di Yamamoto lo fanno per davvero: non vogliono lavorare e lo dichiarano. 
Quante di noi si possono permettere di fare lo stesso?
Deborah D'Addetta
 
 

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