Le anime feroci
di Marie Vingtras
Clichy, 2025
Traduzione di Tommaso Guerrieri
pp. 272
€ 21,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Quattro stagioni, quattro punti di vista, un intero anno che Leo non può vivere, perché Leo non c’è più. Il suo corpo è stato trovato nel greto del fiume e la sua perdita ha disvelato quanto poco Mercy, «tremilanovecentosettantaquattro anime ieri, trenilanovecentosettantatré oggi, una cittadina calma, quasi addormentata» (p. 21) sapesse di lei. La cittadina, pigra e perbenista, si stringe intorno al proprio lutto, ma non è disposta a guardalo realmente, in profondità. Leo, del resto, era una adolescente schiva, silenziosa, che covava nel segreto il suo sogno di andarsene lontano, per cercare una madre che l’aveva lasciata quando era bambina.
È esattamente ciò che sembra: la ragazza che scivola lungo i muri, calma, discreta. La ragazza che scompare, la ragazza che dimentichiamo. […] Era qui ieri, sarà qui domani, pensano, perché qui niente cambia, ed è questo che rende questa città così bella. Eppure nessuno vede quanto quella ragazza frema. Perché lei in realtà non è altro che un lungo fremito, un corpo che sussulta, un dolore lancinante nel petto e quella domanda che vorrebbe urlare a chiunque le si avvicini: avete almeno una vaga idea di chi sono? (p. 11)
qui tutto è nascosto. Siete talmente legati gli uni agli altri che la minima cosa storta deve essere sepolta così bene da non minacciare il gruppo. (p. 61)
Per questo, nel trapasso della primavera in un’estate torrida e crudele, si assiste anche al cambiare delle voci e dei punti di vista. Oltre a quello di Lauren, quella del principale sospettato, Benjamin, professore di francese dal passato torbido che aveva con la studentessa un rapporto troppo stretto. Benjamin è il capro espiatorio perfetto, la vittima che deve essere sacrificata e che, consapevole, offre il collo alla scure del giudizio pubblico. Benjamin ha sbagliato – senza possibilità di redenzione, ai propri occhi prima ancora che a quelli altrui – ed è rassegnato a portare in eterno il peso dello stigma. Solo gli stolti o gli ingenui, a loro volta diversi, sono disposti a mettere in dubbio la sua confessione, a pensare che la colpa che sta espiando non sia quella di cui si è dichiarato colpevole.
Non ci si complica la vita in una città così piccola, appena più grande di una casa di bambole, popolata da minuscole figurine immobili, con le braccia incollate al corpo. Non ci si complica la vita cercando di percepire le ombre, le sfumature. Tutto è necessariamente alla luce, ma anche il giorno più crudo contiene la sua parte di oscurità, una parte presa in prestito dalla notte, ed è la mia parte di notte che li ossessiona. (p. 95)
Delle quattro focalizzazioni quella
di Benjamin è forse la più disturbante.
La confessione della sua umana miseria, ben lontana dal rendere più facile
l’empatia, rende più complesso scindere i due piani della sua esistenza, il
passato e il presente narrativo, mettendo il lettore nella stessa ipotetica
condizione del cittadino di Mercy, quella di chi giudica senza pietà, e non riesce a dar spazio alle sfumature.
L’autunno, poi, è la stagione di Emmy. Emmy,
bellissima e consapevole, è stata la
migliore amica di Leo. Anche nel suo passato c’è una ferita che ha lasciato
un segno invisibile. Se nelle parole di Benjamin si sente il rimorso, in quelle
di Emmy si sente la rabbia: la rabbia
per la falsità degli adulti, per una società asfittica che la soffoca e la misura
solo in base al suo aspetto fisico, senza chiedersi chi sia o cosa voglia
realmente, per i genitori che vivono una vita di pura facciata, articolata
intorno a un ingombrante non detto. Emmy
desidera, desidera intensamente, soprattutto ciò che non può avere, e la gelosia cova come una brace nel suo
cuore giovane. Infine c’è l’inverno di Seth,
il marito abbandonato, il padre che ha perso tutto («Senza Leo non so più che uomo sono. Lei era il mio ultimo appiglio al
mondo, l’unica cosa che mi permetteva di non diventare pazzo», p. 250-251).
Lui dà voce alla perdita, ma anche alle
recriminazioni per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.
Il secondo romanzo di Marie Vingtras, dopo il pluripremiato Blizzard, è la storia di un omicidio, ma anche una riflessione
sulle maschere, quelle che scegliamo di indossare, quelle che accettiamo di
indossare, e quelle che ci impongono gli altri nostro malgrado. Chi sono dunque le anime feroci? Sono coloro
che giudicano senza sapere, ma sono anche i protagonisti stessi, che la debolezza, la paura, la gelosia
rendono meschini. E a farne le spese è
sempre e comunque l’innocente, tradito o trascurato. A farne le spese è
sempre e comunque Leo. Leo, che nessuno conosce, perché tutti guardano attraverso il filtro deformante dei propri occhi e del
proprio egocentrismo, e nessuno prova invece a comprendere i suoi sogni, il
suo sentire più intimo. A dispetto del suo nome, Mercy non concede la grazia a nessuno, e mano a mano che la storia
si dipana, questo appare sempre più evidente.
C’è qualcosa di sottile e potente nella narrativa francese contemporanea, che risiede nell’attenzione alle pieghe dell’animo umano coniugata con la grande cura linguistica. In questo caso, la scelta di Marie Vingtras ci rivela solo un frammento dell’esistenza dei personaggi, quella contenuta nello spazio di pochi mesi. Dopodiché i singoli vengono travolti dallo scorrere del tempo, il loro agito viene percepito da lontano, attraverso gli occhi di un altro, e poi lasciato andare. Ci svincoliamo così dalla trappola della prospettiva unica ma, come nel mondo reale, non abbiamo accesso che a una parte limitata della verità, che si può scoprire solo assemblando tutti i diversi pezzi, le diverse sfaccettature del reale.
Carolina Pernigo
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