di Laura Calosso
SEM, 2025
In un periodo in cui è sicuramente una via narrativamente molto battuta quella delle riscritture storiche o mitologiche, ma anche della riscoperta e valorizzazione dei personaggi femminili, reali o fittizi, Laura Calosso si deve confrontare tanto con la figura di Anita Garibaldi, quanto con la pubblicazione recente di un’altra versione, quella di Enrico Brizzi. Se il romanzo di Brizzi, La leggenda di Anita, dedica ampio spazio alla vicenda dei protagonisti prima del loro incontro, e in particolare ad Anita in quanto individuo dotato di una sua singolarità, giovane donna che cerca un suo spazio già nella realtà limitata di Laguna, Calosso assume invece un punto di vista diverso, e inusuale.
Quella della sua Anita è infatti una voce postuma, che arriva da un luogo e da tempo indefiniti, che guarda il passato emergere da una nebbia indistinta, con lo sguardo di chi se lo è irrimediabilmente lasciato alle spalle. Il suo è un linguaggio poetico, ricco di immagini e suggestioni, che pare giungere da lontano, ricostruire il ricordo attraverso visioni e sensazioni, non sempre connesse in maniera lineare.
Da qui sento la mia vita lontana, una voce sbiadita che affiora e si inabissa.
Ciò che resta di me non fa più male. Il tempo anestetizza la passione. Conosco bene la passione, mi ha divorata, e infine si è spenta. Da qui vedo […] Roma, la città in cui morirono i sogni prima che morissi io stessa. Al mattino suonano le campane e il disco del sole sorge sopra i tetti e le cupole d'oro. Su questo cavallo in perenne corsa, con mio figlio al collo, sono stanca.
Il mio nome è Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva. Aninha. Anita.
Sono naufraga in un amore rosso. Eroina, donna al tempo degli eroi, "poco più di un fantasma". (p. 21)
Quella di Anita è la voce di una donna che ha imparato, ma imparato a posteriori, quando tutto era già finito, guardando scorrere la propria vita come in un lungometraggio. Alcune informazioni appaiono parziali, incomplete, travolte da un passato lontanissimo, di cui nessuno ha serbato traccia. “Nulla è rimasto di quel periodo” (p. 24), dichiara la giovane, riferendosi alla selezione delle notizie all’interno delle cronache, al fatto che la prima riscrittura ufficiale della vita di Anita sia stata quella in funzione di Giuseppe Garibaldi. Di Ana Ribeiro da Silva, sposa quasi bambina del calzolaio Manoel, casalinga già consumata da una quotidianità senza scampo, pochi si sono curati. Sulla donna, ha prevalso il “monumento”:
Io ero e sono un monumento, un'eroina e una madre che, al galoppo, tiene in braccio il suo bambino. Un monumento ha bisogno di un passato integerrimo. Un monumento non può avere più di un marito. (p. 24)
Calosso vuole disvelare invece un’altra Anita, un’Anita contraddittoria, emotiva, interiormente lacerata. Espone sulla pagina tutto ciò che la Storia, che ha voluto fare di lei un'icona, granitica e priva di sfumature, non ha voluto mostrare. In comune, le due figure hanno la passionalità, l’amore ossessivo, la volontà di seguire - ovunque, e a qualunque costo - l’eroe che le ha viste, scelte, portate con sé, incurante di ogni conseguenza.
Libertà e controllo, amore cieco e terrore… il lessico che descrive il rapporto tra la giovane donna e il suo José è ambivalente, se non esplicitamente problematico. Quella che viene narrata è dunque la storia di una dipendenza affettiva, ma anche di una disillusione: Anita, giovane, inconsapevole del mondo, realizza progressivamente che l’amore non è a volte sufficiente, e che certo non basta a cambiare le persone. Quello che la vede protagonista è un romanzo su come si fa la Storia, e su come a volte la Storia travolga e porti alla riscrittura delle storie, quelle piccole, dei singoli. Attraverso Anita, la mitografia eroica dell’Eroe dei due mondi viene citata e posta in dubbio. Si smonta la retorica del patriottismo, tra Montevideo e l’Italia. José è prima di tutto un compagno infedele, un padre assente. È un idealista, certo, ma uno per cui la causa conta più della famiglia.
L'assedio di Montevideo non era bastato a trattenerlo e le mie speranze per una quieta vita insieme si erano dissolte. Mi ero illusa che il cordone di nemici intorno alla città potesse finalmente fermare la corsa di mio marito verso avventure continue. Ma non avevo capito niente. Non mi ero resa conto che la natura di José non era quella di uno che resta. Peggio ancora: me ne ero accorta ma non volevo accettarlo. Combatteva per grandi principi morali ma non si faceva alcun problema nell'abbandonare la sua famiglia. Era il suo "lavoro", lo sapevo, ma mi pareva sempre più evidente che il suo desiderio di una vita senza legami, senza responsabilità, fosse il vero obiettivo, rispetto al quale tutto diventava secondario. (p. 171-172)
Quella di Anita, va detto, è una visione femminista possibile solo nella versione retrospettiva immaginata da Calosso, incompatibile con il personaggio reale, quello di una ragazza analfabeta e di umili origini. Tale visione riguarda molti aspetti, dalla rivalutazione del rapporto (disfunzionale) tra lei e Giuseppe alla maternità, da Anita vissuta come un modo per dimostrare la sua appartenenza al condottiero, ma spesso imposta alle donne, e gestita ora con superstizione, ora con pragmatica violenza. Di contro, la donna è disposta a rinunciare a tutto, anche ai suoi figli, per poter inseguire la passione, per assecondare la propria gelosia, per garantirsi una posizione accanto all’amato, letteralmente nella buona e nella cattiva sorte, in salute e in malattia, fino alla morte. Il rapporto viscerale arriva infatti per Anita fino al sacrificio di sé (non solo delle proprie radici, ma anche dei propri desideri, e infine della propria vita).
Da lui non mi sarei separata mai più. Qualsiasi fosse il prezzo della decisione ero disposta a pagarlo. Nessuno poteva mettersi in mezzo, non lo avrei permesso. Ovunque fosse andato, per qualsivoglia motivo, l'avrei seguito. (p. 257)
Nel ripercorrere le avventure degli amanti avventurieri, l’autrice fa ricorso a una narrazione vivida, cruenta, con un certo gusto per il dettaglio macabro e il sangue delle battaglie, che riprende in molti tratti le tinte romanzesche della memorialistica garibaldina e risorgimentale. Di quest’ultima, d’altro canto, viene denunciata la parzialità, il tentativo finalistico di leggere anche il periodo sudamericano di Garibaldi nell’ottica di quel che sarebbe seguito.
I racconti romanzati […] avevano magnificato le azioni militari al punto da stravolgerle. Garibaldi l'invincibile, il salvatore, come se la sola presenza sul campo di battaglia permettesse miracoli militari. Il popolo credeva a tutto ciò che la propaganda narrava in forma spettacolare e attraente per magnificare un uomo che in Italia si sarebbe poi rivelato decisivo a fini strategici e tattici. (p. 264)
La narrativa diventa vero e proprio mezzo di propaganda, elemento fondamentale per la costruzione del mito garibaldino. Grazie ai racconti delle sue gesta, Garibaldi diventa l’eroe del popolo, l’eroe di tutti. E la sua sposa?
Anita non riesce a non avvertire un senso di ingiustizia per come la sua esistenza viene cannibalizzata; perché, ben più della sua vita, a darle lustro sono le circostanze tragiche che hanno circondato la sua morte; ma soprattutto perché, nel celebrare Anita, più che Anita si è celebrato Giuseppe. Il ritorno in Europa, per mettersi al servizio della prima guerra d’indipendenza dapprima, e per supportare la Repubblica Romana poi, è il momento culminante di questa operazione di mitografia.
Roma non era una città, era il terreno su cui coltivare e crescere il mito. Uomini e donne combattevano alla pari nello sforzo titanico di reggere un'idea e issarla su un piedistallo d'oro. Combattenti, infermiere, popolani, ragazzi impegnati ad andare a caccia di bombe: non era una città, bensì il laboratorio della resistenza armata contro il nemico straniero. Il modello di lotta, capace di affascinare gli animi e attrarre volontari disposti a lasciare tutto pur di essere parte di un'idea, era il vero obiettivo, più ancora della vittoria, perché si prestava a essere adottato in altri luoghi del mondo. Me lo avessero spiegato allora, non l'avrei capito, perché quasi mai si capisce il proprio tempo. […] Non ero stata in grado di capirlo ma molti indizi dicevano che anch'io sarei servita, prima o poi, a uno scopo identico. (p. 283-284)
Le tappe dell’avventura garibaldina vengono ripercorse seguendo la traccia lasciata dalla memorialistica, a cui l’autrice si attiene, ma provando a decentrare il punto di vista. Nella sua opera, Anita torna a essere molte cose: la giovane donna, la moglie del condottiero, la madre dei suoi figli; una volta arrivata in Europa, Anita è sempre la diversa, “la cosa più esotica che avessero mai visto, una specie di divinità selvaggia ma buona” (p. 297). La sua storia non si esaurisce con lei, e il suo corpo non ha pace, neanche dopo la morte, diventando parte del tentativo di riappropriazione del Risorgimento da parte del fascismo. È Mussolini a volere le spoglie di Anita al Gianicolo (“In ballo c'era la memoria risorgimentale e garibaldina, elemento portante di un'identità nazionale di cui la missione fascista, nuovo esperimento politico e sociale, aveva bisogno”, p. 312). Il monumento, però, questa volta non riesce a intrappolare del tutto la donna, che continua a cavalcare libera attraverso il tempo, a narrare le sue vicende a chiunque - come noi, lettori odierni - voglia ancora (e finalmente) prestarvi orecchio.
Carolina Pernigo
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