Un altro romanzo alla ricerca delle radici? Sì e no. Sì, perché alla soglia dei cinquant'anni Fabio Genovesi decide di omaggiare le donne che sono state per lui “magnifiche maestre ”; no, perché l'autore ridefinisce i confini stessi del termine “famiglia” e soprattutto ricorre a qualche escamotage inventivo per staccare la sua opera dalla ricerca di realismo spinto di tanta narrativa contemporanea.
Cominciamo proprio da quest'ultimo elemento, ben visibile nella cornice: immaginando un conto alla rovescia lungo una settimana che accompagna l'io narrante al suo cinquantesimo compleanno, infatti, sono soprattutto le notti a diventare ambientazione preferita per i sogni o per le apparizioni: «Le mie zie, [...] di notte tornano da me, e di giorno spariscono ma ci sono ancora. Continuano a parlarmi e io le sento». (p. 159). Dunque, le notti sono il tempo del sogno (o delle apparizioni?); i giorni, invece, occasione per rimeditare su quanto è accaduto, ma non è detto che gli incontri col passato risultino del tutto interrotti... Si vedrà in che senso.
Spesso le “magnifiche maestre” raccontano la loro storia, che non deve per forza intrecciarsi con la vita dell'io narrante: durante la prima notte, ad esempio, appare la trisnonna Isolina, e Fabio è semplice spettatore della sua vita matrimoniale, iniziata sotto i peggiori auspici e invece migliorata notevolmente grazie alla prontezza di spirito di una donna decisa a non subire alcuna violenza.
Vorrei raccontare di più, perché questo è stato forse il sogno/l'apparizione che mi ha coinvolta maggiormente, ma non voglio togliervi il piacere di incontrare da soli l'ironia, vero marchio distintivo di Fabio Genovesi, che non si sottrae ad alcun argomento ed è in grado di parlare di violenza domestica, ma anche altrove di morte, discriminazione di genere, difficoltà economiche senza mai cadere nella cupezza assoluta. L'ironia non è mai, chiaramente, irrispettosa nei confronti dei soggetti; punta, come nel caso di Isolina, a osservare il mondo da un'altra prospettiva, meno disperante, più aperta al mutamento. Si osservi, ad esempio, la delicata innocenza con cui Fabio, da piccolo, trova una facile soluzione alla zia Irene:
«Scusa zia, ma se non ti piacciono i maschi è un problema?»
«Sì. Cioè, no, però per avere un bambino sì».
«Secondo me no. Se non ti piacciono i maschi, basta che fai una bimba e sei a posto». (p. 87)
Se è vero che «in ogni epoca e a ogni latitudine, noi abbiamo solo bisogno di chiudere gli occhi e credere a qualcuno a qualcosa» (p. 50) anche per non essere schiacciati dalla corsa del tempo o dalla ricerca di senso tout-court, Fabio Genovesi crede nella forza dei ricordi e delle relazioni famigliari. E, si badi, non si tratta solo di famiglia tradizionale, come l'autore ha tenuto a sottolineare in tante interviste uscite in queste settimane:
[...] A tornare a me non sono le donne della mia famiglia di sangue, ma di quella famiglia più grande e profonda che non è tenuta insieme dallo scuro appiccicoso del sangue, ma da una colla più intensa e trasparente, che è l'amore. Una parentela di affetti, di persone che ti amano e ami, che scegli e ti scelgono. Se la famiglia di sangue è un albero, questa è un bosco, dove le radici sono diverse ma i rami salgono a intrecciarsi e sorreggersi in magnifici disegni sempre diversi. (p. 104)
È dunque l'affetto a selezionare di chi parlare e di chi no; e non sempre si tratta di presenze radicate per lungo tempo nella vita di Fabio. Ci sono anche figure che, quasi farfalle dai colori vividissimi, hanno portato la loro bellezza effimera e sono morte prematuramente. Insomma, nella selezione delle sue maestre, Genovesi adotta criteri diversi, che potremmo riassumere nell'espressione "chi gli ha lasciato qualcosa", o attraverso il racconto altrui (come la trisnonna, figura quasi leggendaria in famiglia) o attraverso esperienze condivise e scolpite nella memoria (come la splendida Benedetta, stroncata dalla droga, o la piccola zia Gilda, che lo accompagnava in chiesa e gli ha reso più sopportabili i funerali).
Le osservazioni esistenziali non mancano, così come i bilanci, complice la soglia dei cinquant'anni che rende inevitabile e molto comprensibile il guardarsi indietro e riflettere sul proprio percorso. A qualche momento in cui il narratore si immalinconisce, si alternano episodi in cui la dimensione dell'infanzia rifulge, autentica e piena di quel tutto da fare che riempie i bambini di speranza. Col tempo, con la crescita, tanto cambia e purtroppo ha ragione Genovesi: «A questo ci abituiamo, a una vita piena di noia, con occasionali sollievi di niente» (p. 161). È anche grazie a romanzi come i suoi, pieni di innocenza, bonaria ironia e gratitudine verso il passato, che possiamo pacificarci e rievocare il tempo della creatività, della vitalità innocente e di una genuina e spensierata apertura al divenire. Ed è come tornare a respirare.
GMGhioni
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