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“La vita e il suo racconto sono una cosa sola”: l’autobiografia di Denis Diderot immaginata da Marco Cavalli

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L’uomo dell’enciclopedia
di Marco Cavalli
Neri Pozza, 2024

pp. 201
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Per Monsieur M. non è solo un’occasione professionale incontrare l’ormai anziano Denis Diderot. Si tratta, piuttosto, del sogno di una vita, quello di trovarsi faccia a faccia con il «suo eroe», l’uomo di cui conosce a menadito l’opera, e che vale gli sforzi per raggiungerlo: affrontare la ruvidezza della figlia, che vuole a tutti i costi proteggere la tranquillità del padre nei suoi ultimi giorni di vita, e la sentenziosità di Madame Diderot, «una donna che conosce il prezzo di tutte le poche cose che si comprano, delle tante che non si comprano, e all’ingrosso il valore di suo marito, ma più per sentito dire che per esperienza personale» (p. 13). A livello narrativo, il cronista deve svolgere la funzione del lettore, colui che accoglie il messaggio e i valori dell’illuminista, ma anche colui che con le sue domande pungola e sollecita: lo possiamo immaginare seduto davanti al vecchio saggio, ancora vitalissimo, con la facoltà di interrompere, interpellare, fare degli affondi.

Mentre sembra che siano tali stimoli a guidare l’esposizione, ci si rende conto però che si tratta di qualcosa che il pensatore ha previsto e voluto: «la mia presenza gli faceva gioco […,] chiunque ponga piede nel suo teatro non deve far altro che porgergli le battute e lasciarsi dirigere da lui» (p. 31). Anche quando così non appare, è quindi sempre Diderot a guidare la conversazione, e l’altro diventa uno strumento nelle sue mani esperte: 

Vi renderete conto che sono quasi invisibile: uno spicchio d’ombra, il profilo del direttore di palcoscenico che fa capolino ai margini del sipario, pronto ad azionarlo a un comando del capocomico. (p. 31) 

La lettera iniziale di M. alla moglie ha quindi anche lo scopo di presentarci il contesto, di darci una prospettiva esterna rispetto alla focalizzazione interna del volume, in cui è il filosofo a raccontarsi in prima persona, a descriverci la sua realtà e la sua visione del mondo.

Quando prende la parola, il vecchio saggio avvia un percorso della memoria che lo riporta indietro nel tempo, agli anni parigini della sua gioventù, quando ad essere diverso non era solo lui, ma il mondo intero. I valori, le persone, la società tutta sono cambiati, il racconto non deve però essere qualcosa di nostalgico. Anche da anziano, Diderot mantiene l’occhio dell’enciclopedista, che guarda al reale con acume e curiosità, che si meraviglia di tutto, che fa progetti e si proietta verso un futuro di cui – è consapevole – non farà più parte. Tuttavia, ci informa subito, se racconta lo farà a modo suo e Monsieur M., così come il lettore, dovrà adattarsi alle sue divagazioni, alle sue omissioni, alle sue esagerazioni… nel porsi esplicitamente come narratore inaffidabile, come deus ex machina che muove i fili dell’intreccio, Diderot svela dunque la natura inevitabilmente soggettiva, parziale, di ogni narrazione e ci rende protagonisti di un gioco metaletterario. L’ironia, del resto, è un dono di Cavalli, oltre che di Diderot, tanto che, nel volume, viene dispiegata già nella incipitaria lettera di François-Edouard alla moglie, ma ritorna largamente quando è il filosofo a parlare.

Il quadro che viene delineato è quello di una Parigi fervente di vita, brulicante di giovani pensatori squattrinati che arrivano dalla provincia nella speranza di eguagliare i grandi illuministi e vivono arrabattandosi, destreggiandosi in una società pettegola e spesso ipocrita. Al contempo, intessono però una rete di relazioni in cui spiccano nomi ben noti, almeno ai posteri. Si configura quindi nitidamente uno di quei momenti storici in cui sembra che tutti gli intellettuali, tutti gli artisti di rilievo, si siano dati convegno in un dato luogo per farlo risplendere.

All’epoca, d’Alembert non era per me che il nome di un matematico famoso. Noi non ci siamo conosciuti che nel 1746. Prima di allora avevo un solo amico, Jean-Jacques Rousseau. Non era una compagnia facile, ma la mia ammirazione per lui si rinnovava ogni volta che ci vedevamo. (p. 94)

Personaggi che il lettore ha incontrato finora quasi solo sui libri di scuola acquistano sulla pagina un nuovo spessore, diventano protagonisti di vividi, umanissimi ritratti – come Rousseau, con i suoi eccessi di rigore e sensibilità, Ephraim Chambers dalla sfacciata verbosità, l’imprevedibilmente serioso Laurence Sterne, o l’istrionico abate Galiani. Le pagine definiscono un caleidoscopio di personaggi e osservazioni, ora serie, ora caustiche. Al contempo, largo spazio è dedicato alla descrizione del processo creativo, che per il giovane Diderot è tutt’altro che facile, e se talvolta produce esiti insospettati, come ne I gioielli indiscreti, un romanzo libertino in cui a parlare non sono altro che i genitali femminili, in altri casi invece comporta affanno e disagi. 

Ero solito prendere una quantità di appunti; abitudine di antica data, più simile a un vizio che a una disciplina. Tracciavo ghirigori sulla carta come un contadino getta semi a casaccio nel solco arato, fidando nella fecondità del terreno, nel calore del sole, nell’abbondanza delle piogge. Ma non raccoglievo frutti. Qualunque idea promettente mi venisse al mattino, entro il pomeriggio il semplice gesto di trascriverla l’aveva disseccata. Mi imposi di rallentare il ritmo, nella speranza che lavorando di meno avrei lavorato meglio. Tanto valeva augurarsi che bastasse guardare in aria per vedere apparire un santo. (pp. 108-109)

Al centro, inevitabilmente, ma comunque in buona compagnia, è il progetto monumentale dell’Enciclopedia, vera e propria pietra dello scandalo per i tempi, lavoro di una vita la cui concertazione richiede a Diderot non poche fatiche, materiali e diplomatiche. I rischi sono proporzionati all’ambizione dell’opera. Alle preoccupazioni degli editori si associa il sano realismo del narratore («eravamo un’accolita di dilettanti, accomunati dall’incapacità di fare la cosa giusta», p. 137), che dà non meno pensieri. Se a questo si aggiungono gli strali della censura e i tradimenti di persone che si credevano vicine e devote, si capisce bene come l’argomento possa occupare una parte rilevante della rimembranza dell’anziano Diderot.

Risulta, a ben pensare, davvero sorprendente che l’opera, nonostante l’argomento e l’abbondanza di ammonimenti filosofici, non risulti didascalica. L’andamento irregolare, i cortocircuiti della successione cronologica, le associazioni libere della memoria contribuiscono anzi a muovere una trama in cui più che gli eventi è il pensiero a contare. Bisogna, certo, mettere in conto diversi strali anticlericali e alcuni appunti misogini in linea con il tempo in cui vive l’io narrante, e con la sua lingua affilata. Al contempo, Cavalli è abile nel restituire i chiaroscuri di un tempo che cambia, di una Francia in cui già affondano le radici della rivoluzione. In questa mutazione di pensiero gli illuministi giocano un ruolo non irrilevante, e l’Enciclopedia è sia matrice che segno del processo in atto. Basti pensare all’interesse per i saperi tecnici e pratici, che riscatta intere falangi sociali.

Quel che non perdono agli artisti è il loro arroccarsi ciascuno dentro il suo ambito, come se non esistesse altro. Non perdono ai pittori di ignorare l’arte del macellaio nel disporre sul banco i pezzi di carne; ai danzatori, di non conoscere il ritmo e la grazia dei movimenti del fabbro quando lavora il ferro; agli attori, di non andare mai al mercato ad applaudire il pescivendolo, il rosticciere, la merciaia, mentre tengono avvinto il loro pubblico recitando se stessi. (p. 153)

Nonostante le sue contraddizioni, che emergono chiaramente nel volume, l’epoca dei Lumi in Francia rappresenta – se non il trionfo di ideali continuamente osteggiati dal potere – almeno l’emersione di una pluralità di voci e pensieri che genera dibattito, e pertanto spirito critico. Diderot viene narrato da Cavalli, o meglio si narra, senza sconti, ma senza mai abdicare al suo spirito di tolleranza, alla sua avversione a ogni fondamentalismo («non ho mai capito il gusto di appartenere in esclusiva a qualcosa o a qualcuno, come se ne andasse della salvezza dell’anima», p. 195), che non implica in nessun caso una mancanza di pensiero o di acume nell’ osservazione del reale. È anzi dalla compresenza, e dalla conciliazione, di questi due aspetti che arriva il monito più forte alla nostra contemporaneità.

Carolina Pernigo