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Crescere a volte significa imparare (anche) a chiedere aiuto: intervista a Gerardo Innarella sul suo romanzo d'esordio "Per amore di un ombra"

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«Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta», potremmo dire parafrasando Socrate. E la ricerca è alla base del romanzo d'esordio di Gerardo Innarella, Per amore di un'ombra, in libreria dalla metà di aprile per Longanesi. Storia in grado di appassionare come un romanzo d'avventura e di farci oscillare tra un sorriso e una lacrima come vuole ogni buon percorso di formazione, Per amore di un'ombra ha al centro temi di primaria importanza di cui si può anticipare pochissimo per non fare spoiler. Vi basti che come vuole il romanzo di formazione, abbiamo un piccolo protagonista alle prese con problemi ben più grandi della sua età; benché la nonna e il papà gli siano vicini, sarà soprattutto l'amicizia con un bambino che ha vissuto qualcosa di molto più definitivo e terribile di lui a dargli la forza per continuare nella sua "missione". Di cosa si tratta? Ne abbiamo parlato con l'autore, che ringraziamo fin da ora per la sua disponibilità. 

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Per amore di un'ombra
di Gerardo Innarella
Longanesi, 16 aprile 2024

pp. 336
€ 17,60 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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All’interno del romanzo facciamo la conoscenza del primo protagonista, Flaps, un bambino di cui mi ha colpito fin da subito la fantasia, insieme alla grande determinazione e alla capacità di non perdersi d’animo. Ce lo descrivi? 

«Flaps è una creatura per certi versi soprannaturale o, per meglio dire, “infranaturale”, nel senso che abita quegli spazi della realtà che per la maggior parte delle persone restano oscuri, o sfumati, e che lui ha imparato a conoscere grazie a sua madre. Per lui la vita è una ricerca continua, tutto ha un senso predefinito, tutto lo riguarda come il protagonista di una missione fondamentale, da portare a termine con gli strumenti di cui dispone in casa; così carte, giocattoli e disegni nelle sue mani diventano oggetti magici. Chiaramente non è facile avere a che fare con un tipo del genere, uno che può portarti in casa un nido incustodito o costringerti a sfidare il più fico del liceo». 

Qual è la “missione” segreta che coinvolge totalmente Flaps fin dalle prime pagine? 

«Sua madre, Lory, è scomparsa lasciandogli una complicatissima mappa in un cassetto, piena di indizi, rompicampo e riferimenti alla propria vita passata. Flaps per ritrovarla dovrà immergersi in un vortice di vicende altrui, spesso misurandosi con una realtà che non è in grado di affrontare». 

L’altro protagonista, che si annuncia fin dal prologo, si chiama Marlo e precisa che «questa è solo la storia che mi ha cambiato la vita». Perché fin dalla prima volta che incontra Flaps prova curiosità e trasporto verso questo bambino? 

«A colpirlo è il modo con cui Flaps si rivolge al papà in un momento particolarmente drammatico. Marlo ha la sua “ferita fatale” proprio nel rapporto difficile con suo padre: non riesce a parlargli come vorrebbe, né riesce ad accettare le sue scelte di vita, per cui, almeno all’inizio, la vicinanza con Flaps è la chiave con cui riaprire una porta di dialogo. Ma le cose, purtroppo per lui, non andranno come previsto…»  

All’interno del romanzo Marlo torna a parlare attraverso pagine di monologo interiore, distinte anche graficamente dalla scelta del carattere corsivo e da un titolo, “intermittenza di Marlo” seguita da un numero progressivo. Eppure bisogna anticipare che i lettori non faranno per niente fatica a seguire le pagine in cui si sentono i pensieri e le esperienze di Marlo. Anzi, trovo che questi intermezzi manifestino grande libertà stilistica. Sei d’accordo? 

«Le intermittenze sono sicuramente le parti che durante la scrittura mi hanno divertito di più. Piccolo off-topic. Per anni la mia scrittura è stata legata al teatro: è stato lì che ho cominciato e spesso è lì che finisco per tornare. La scrittura teatrale per me afferisce soprattutto alla ricerca di una lingua viva, spesso sporca, istintiva, e quella di Marlo non poteva che essere così. Di lui, durante il processo creativo, è venuta, prima di tutto, la voce: sentirlo parlare per me era un piacere e non vedevo l’ora che tornasse a farlo. Spero possa valere lo stesso anche per i lettori del libro».  

La narrazione principale è anche intervallata dalle lezioni che Flaps riceve dalla madre, Lory. È molto toccante il loro talento speciale di parlarsi e trasmettersi amore e insegnamenti giocando. Cosa rappresentano le “lezioni” all’interno del romanzo? 

«Qui rischiamo di rivelare troppo. Posso dire che i flashback delle lezioni sono tappe di un “addestramento”: almeno, per me che sono appassionato spettatore di anime giapponesi, quelli sono momenti in cui il mentore, in questo caso la mamma, spinge l’allievo a superare limiti e pigrizie fisiche, ma soprattutto mentali, a pensare fuori dagli schemi. Tutto bene, penserete, ma talvolta queste lezioni-gioco lo costringono a fare i conti con la paura del buio». 

Amicizia, amore per la propria famiglia, ma anche momenti per imparare a starsene solo con i propri pensieri e le proprie inevitabili frustrazioni sono tappe fondamentali per la crescita di Flaps. Quali aspetti della sua formazione ti colpiscono di più? 

«Il fatto che impari a chiedere aiuto. Credo sia la cosa più difficile. Di certo lo è stato per me». 

Passiamo ora all’ambientazione: il romanzo prende infatti l’avvio alla fine degli anni Ottanta e in varie occasioni emergono oggetti, usi e mode iconici degli anni Novanta. Cosa ha rappresentato per te questo decennio e come lo hai inserito nel romanzo? 

«Quegli anni per me sono il ketchup e la maionese, i cabinati delle sale giochi, il britpop e… i pavimenti appiccicosi. Ho questo ricordo ricorrente, di feste o piccoli locali, e dell’impressione di non riuscire a staccarmi da terra: è una sensazione strana, perché da un lato senti che tutto intorno c’è grande allegria, spensieratezza, ma dall’altro ti senti come invischiato, come se dalla festa non potessi più andartene. Gli anni Novanta per me sono i versi di Gomma dei Baustelle: “Tremavo un po’ di doglie blu / e di esistenza inutile / vibravo di vertigine / di lecca-lecca e zuccheri”». 

E poi c’è Napoli, con una vera e propria fede calcistica in Maradona e la sua lingua, di cui colpiscono in particolare modi di dire coloriti e molto efficaci. Non ambienti però la storia a Napoli città, ma in un paese della periferia: come mai questa scelta? 

«Per quanto sia la città in cui ho frequentato l’università, non è quella in cui sono cresciuto. Credo che per conoscere un luogo nel profondo sia necessario viverci da bambino, e non me la sono sentita di ambientare il mio primo romanzo in un luogo che non conoscessi in modo approfondito. Penso che in un romanzo la geografia sia un elemento fondamentale: dovevo potermi muovere liberamente, sapere con esattezza quanto la sala giochi fosse distante da casa di Flaps o dal club Napoli. Ecco, il paese di provincia secondo me ha anche accresciuto il potere esoterico di una vicenda come quella maradoniana, perché la maggior parte delle persone l’ha visto solo in televisione, come un’emanazione, quindi fatica a distinguerne i contorni fisici, umani. Proprio per questo motivo secondo me diventa anche credibile che un personaggio come Naso ‘e Cane, ultras e profondo conoscitore dei segreti del paese, prima di pronunciarsi su una qualunque richiesta, richieda un “pedaggio” ponendo una domanda sul fantomatico “Pibe de oro”». 

Come i lettori avranno già capito, siamo davanti a un romanzo strutturalmente composito, che qualche volta ci lascia spaesati perché c’è uno stacco narrativo e solo dopo alcune pagine capiamo il legame che i nuovi personaggi hanno con i protagonisti. Come mai questa scelta? 

«Credo di essere, per natura, più propenso alla narrazione breve: a un certo punto mi stanco, devo andare da un’altra parte. Nel caso di Per amore di un’ombra è successa una magia: ogni volta che me ne andavo finivo per tornare nello stesso posto. Credo che anche la scrittura del libro abbia avuto questo funzionamento: ogni tanto faceva capolino un nuovo personaggio, ansioso di farsi conoscere, e non potevo certo ignorarlo; poi però mi accorgevo che quel personaggio diventava fondamentale per risolvere un problema della trama principale. All’inizio non lo sapevo, poi lui, o lei, piano piano mi prendeva per mano finché, dalla sua angolazione non tornavano a essere visibili Marlo, che so, tra i corridoi di un liceo, o Flaps chino sulle sue mappe». 

Se dovessi scegliere tre libri che ti hanno formato particolarmente e che in qualche modo pensi ti abbiano influenzato nella scrittura di Per amore di un’ombra, quali citeresti e perché? 

«Facciamo che scelgo tre opere di scrittura. La prima è I Goonies, il film della mia infanzia, o meglio, il film dell’infanzia che avrei voluto: amici, una vecchia soffitta e una misteriosa mappa del tesoro. La seconda è Moby Dick, per l’ossessione con cui Achab conduce la sua ricerca, e per il bianco imperscrutabile di una balena che è madre e carnefice. L’opera che però ha determinato non solo questo libro, ma gran parte del mio amore per la letteratura, è Storie di cronopios e di famas di Julio Cortàzar, citato anche nell’esergo. Mi sono chiesto spesso perché questa piccola raccolta di racconti continui a esercitare su di me una fascinazione così grande». 

E ti sei dato una spiegazione?

«Credo dipenda dall’apparente facilità del mondo che, in poche pagine, Cortàzar riesce a creare, un mondo di creature instabili e insicure, le Speranze, di razionali “etichettatori” della realtà, i Famas, e di sognatori anarchici e inadatti, i Cronopios. Per me Flaps è abbastanza chiaramente un cronopio, ma lungi da me paragonarmi a uno scrittore del genere: più che di una filiazione, mi sembra frutto di una venerazione». 

E quanto pensi che ti abbiano ispirato, invece, la scuola, che frequenti quotidianamente in qualità di insegnante, e il teatro, altra tua passione (oltre che campo di studio) da tanti anni? 

«Oltre ad essere una risorsa per dare credibilità a monologhi e dialoghi, il teatro in qualche modo riproduce la struttura del mio pensiero: immediato, divisibile in scene, spesso ignorato. La scuola entra invece prepotentemente in gioco soprattutto nella seconda delle tre parti in cui è diviso il libro e diventa il teatro (aridaje!) in cui i protagonisti agiscono nella loro fase adolescenziale. Da insegnante, credo di conoscere abbastanza bene certe dinamiche (e qui torniamo alla necessità di scrivere di ciò che si sa), ma ciò che più mi colpisce della scuola è la capacità di farsi contenitore di una gamma vastissima di sentimenti, il desiderio, l’invidia, la competizione, la gioia, che spero emergano anche nel romanzo, ma soprattutto sono il motivo per cui dopo quindici anni non mi sono ancora stancato di entrare in classe». 

Ora che stringi il romanzo rilegato tra le mani, cosa hai trovato particolarmente difficile da realizzare e, invece, cosa hai avuto chiaro fin dall’inizio? 

«La parte più difficile è stato senza dubbio il lungo lavoro di revisione. È una fase in cui devi saper aspettare, preparandoti al fatto che il tuo paragrafo preferito possa essere modificato o cancellato, che espressioni o battute che consideravi brillanti possano risultare prive di senso, oltre che di spirito. Non è facile. Scrivere un libro è un po’ come generare una creatura: voi come la prendereste se vi dicessero che gli occhi di vostra figlia non sono poi così belli? Io me la prendo anche quando mi dicono che il mio gatto è troppo grasso. Nonostante questo però, avevo ben chiaro il fatto che io e Guglielmo, editor del libro, eravamo sulla stessa barca, e che rispetto alla prima stesura il libro gradualmente migliorava. Insomma, mi sono fidato, e credo di aver fatto bene». 

Cosa un aspirante scrittore, a tuo parere, non deve mai togliere dal suo “zaino” mentre sta scrivendo un’opera? 

«Un dinosauro. Ma vanno bene anche tigri, draghi, robot o astronavi. Qualcosa che non serve a niente, ma ti fa vivere un po’ meglio. Come la letteratura, o l’arte, o un sogno… che poi siamo fatti della stessa materia, no?».

Intervista a cura di Gloria M. Ghioni