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Tra Eranova e Macondo, l’utopia di “Un paese felice” di Carmine Abate

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Un paese felice
di Carmine Abate
Mondadori, 2023

pp. 264
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)


Questa è la storia di un paese fantasma. Non ci credete? Provate a digitare su Google Maps la parola Eranova. Magicamente vi apparirà un pallino rosso a indicare un luogo, un paese nel bel mezzo della Calabria, poco oltre il promontorio dominato dalla bellissima Tropea. Da Milano sono 1.195 chilometri percorribili in 11 ore e 51 minuti. E dove arrivereste? Esattamente in mezzo all'acqua del porto di Gioia Tauro, di fronte al terminal per i container dell'Asi, Area sviluppo industriale. È lì che il punto rosso di Google Maps vi condurrà. Ed era proprio lì che fino alla metà degli anni 70 sorgeva un paese felice, Eranova si chiamava. Una manciata di case bianche sorte nei pressi di una spiaggia di sabbia chiara, in un territorio ricco di agrumeti, oliveti e vigneti, improfumato di zagara, che di fronte a sé aveva solo i colori del mare dal quale sorgevano le sagome delle Isole Eolie e lo sbuffo di fumo del vulcano di Stromboli.

Un paese che in nome di un fantomatico progresso, confinante con parole come sopraffazione, promesse politiche, dispendio di denaro pubblico e denominato pomposamente "quinto polo siderurgico", è stato raso al suolo tra il 1975 e il 1977, nonostante la resistenza commovente degli eranovesi disposti a tutto pur di salvare il loro paese felice. Sparito, cancellato dalla geografia. Ma non dalla storia perché quel paese rimane nella memoria di coloro che lo abitarono e perché il bel romanzo di Carmine Abate, Un paese felice, ridà vita e dignità di racconto e testimonianza alla vicenda che portò alla distruzione di un intero paese. L’autore ha tradotto questa storia in un romanzo edito da Mondadori.

La vicenda narrata prende inizio dalla fine, ossia dal movimento delle ruspe che impietosamente avanzano sradicando alberi secolari e sgretolando case. E con esse le vite delle famiglie che avevano dato vita al paese. Sì perché, ironia della sorte, Eranova era stato fondato nel 1896 da alcuni capifamiglia del paese vicino, San Ferdinando, stanchi dei soprusi del marchese che governava su quei territori. Questi uomini, per lo più contadini e agricoltori, avevano ottenuto la possibilità di costruire, in una lingua di sabbia ancora arida, le proprie case dando vita a un'era nuova. Un paese che portava nel nome la propria ragion d'essere: la libertà.
Ecco perché non siamo rimasti lì, a San Ferdinando. Perché un gruppo di noi era stato nella Merica e aveva saporato la libertà, che oltre all'aria che respiriamo è pure come l'acqua frizzante e, una volta bevuta, non puoi più farne a meno (p. 20)
Protagonisti principali sono due ragazzi, Lina e Lorenzo, studenti all'Università di Bari, e mentre i genitori del ragazzo hanno lasciato la Calabria e sono emigrati ad Amburgo per cercare lavoro (e qui entra in gioco la storia personale di Abate), la famiglia di Lina è profondamente legata al paese di Eranova, dal tempo della sua fondazione. Un legame arboreo, dalle radici solide e profonde che si tramanda alla più giovane, Lina, la quale vive nel suo presente le storie del passato narrate dalla nonna Mena, dal nonno Cenzo e dagli abitanti più longevi che fanno a gara nel far rivivere le vicende di un tempo, dal prete spretato che ebbe sei figli al sacerdote che morì avvelenato da un sorso di vin santo a cui qualcuno aveva aggiunto candeggina.

Lina, determinata a tutto pur di non vedere il suo paese sbriciolato dalle ruspe, lotta con l'energia e la determinazione dei vent'anni, combatte anche contro la rassegnazione di parte degli abitanti che prendono la cosa con l'antico fatalismo calabrese. E si batte anche contro gli altri calabresi, dei territori confinanti, soprattutto reggini, che si sono sentiti defraudati dalla decisione del governo di stabilire il capoluogo di regione a Catanzaro e non a Reggio Calabria. Proprio dai disordini di Reggio, nati in seguito a questa scelta, nacque il "pacchetto Colombo" (dal nome dell'allora presidente del Consiglio Emilio Colombo) che, in funzione risarcitoria, prevedeva appunto la nascita del quinto polo siderurgico proprio in quei territori, con il sacrificio di Eranova che aveva la colpa di stare dove non doveva. Con un mercato siderurgico già in profonda crisi. Un megaprogetto che faceva gola a molti e che voleva pur sempre dire lavoro e quindi la possibilità per tanti calabresi di rimanere nella loro terra. Certo, a scapito dell'ambiente (ma cinquant'anni fa la sensibilità era diversa) e soprattutto a scapito di un paese che di morire non ne voleva sapere.

Abate racconta delle estati di Lina e Lorenzo bellissime nello scintillio del sole e del mare, estati lunghe e pigre come solo a vent'anni esistono, tra la musica dei juke-box e gli interminabili bagni nelle acque verdi e blu che bagnavano Eranova. Estati che profumano di zagara, di arance, di limoni e che hanno il suono delle tavolate allargate dove l'importante è stare insieme. Un paradiso della cui fine però Lina è sempre più consapevole.
Il filo letterario che unisce il romanzo, già a partire dal titolo, rimanda a Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez e alla sua Macondo, veramente un paese felice, come recita l’esergo. Un libro che Lorenzo legge e rilegge  e nel quale ritrova quell’utopia che muove la sua ragazza.

Ho trovato molto interessante la scelta linguistica compiuta dall'autore che per lunghi tratti scrive in una forma quasi dialettale, ma tanto letteraria da risultare sempre comprensibile. Passi che non sono messi tra virgolette perché a parlare non è una persona sola, bensì l'intero popolo, la gente di Eranova, legata alla terra, al lavoro, al cibo, aperta all'ospitalità, dignitosa nella povertà. Ed è per questo che il romanzo può essere definito collettivo perché Abate dà voce agli ultimi, a coloro che non vengono ascoltati, a quelli che perdono tutto, ma dei quali non interessa niente a nessuno. Meno che meno ai potenti locali e nazionali. Un’attenzione, quella alla lingua, che Abate mette in tutti i suoi libri, lui, calabrese, di famiglia arbëreshe (quindi di origine albanese), emigrato, vissuto nella comunità dei “germanesi”, i calabresi di Germania, è molto attento alla parte linguistica della propria scrittura. Perché per lui la lingua è impastata con la sua storia, con il suo vissuto.
"Accomodatevi, giovanotto. Assettativi, riposatevi un pochicello, siete tutto sudato. Da dove venite?". Ogni ventina di passi mi invitano a sedere con loro. Cerco Lina con lo sguardo, non la vedo da nessuna parte. "Di chi siete figlio? Favorite qualcosa di fresco, macàri una limunata o una granita con i limoni nostri? O puramente un latte di méndula o un bicchierino di rosolio che asciùca i sudori? Cercate qualcuno?" (p. 18)
A questa "voce di popolo" fanno da controcanto i dialoghi di Lina e Lorenzo , i giovani struiti, che si rendono conto, Lina soprattutto, che la lotta contro l'ingiustizia rischia di essere inutile. E cercano appigli proprio al loro studio, merce preziosa, per smuovere le acque. Da qui il cammeo immaginario di Pier Paolo Pasolini, incontrato in una libreria, che i ragazzi tentano di tirare dalla loro parte (e ci sarebbero anche riusciti probabilmente se lo scrittore non fosse stato ucciso al Lido di Ostia il 2 novembre del 1975), da qui le lettere scritte al Presidente della Repubblica, ai ministri, alle autorità. Tutto inutile. La storia farà il suo corso, le ruspe passeranno, il quinto polo siderurgico non vedrà mai la luce. Esattamente come accadde venticinque anni prima agli abitanti di Curon, in Val Venosta, che videro il loro paese sommerso dalle acque per dare vita a una diga voluta da Montecatini nell'ambito di un vasto piano per l'aumento della produzione nazionale di energia elettrica. I resti dell'antico paese sono in fondo al lago dal quale fuoriesce, imperioso e solitario, solo il campanile della chiesa. A monito di una storia dolorosa.

Un paese felice è il romanzo dell'Italia che deve scegliere tra lavoro e salute, tra memoria e progresso, tra utopia e disincanto, tra lotta e rassegnazione. È una storia d’amore tra due ragazzi, ma non solo, è un racconto d'amore per le proprie radici, per la memoria collettiva, per la propria terra. E ha il merito di riportare alla luce una vicenda degli anni '70 che quasi nessuno conosce ma che ha ancora molto da dire al nostro tempo.

Sabrina Miglio