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Una riflessione sulla vita e sullo scrivere – che forse sono la stessa cosa: “Psicopompo” di Amélie Nothomb

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Psicopompo
di Amélie Nothomb
Voland, febbraio 2024

Traduzione di Federica di Lella

pp. 128  
€ 16 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook) 

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Ogni libro di Amélie Nothomb, si sa, attinge a mani piene dal vissuto della scrittrice. Anche per questo, probabilmente, l’editore Voland ha scelto per quanto riguarda gli ultimi romanzi usciti in Italia di mettere in copertina le particolarissime foto dell’autrice: le sue smorfie, i suoi grandi cappelli, il suo iconico abbigliamento nero sempre accompagnato da un rossetto rosso. Eppure questo libro ci rivela un nuovo lato della vita della scrittrice – un lato che concerne tutto ciò che della vita non fa più parte: la morte.

La morte è una presenza fondamentale nella poetica di Nothomb: non solo l'atto di uccidere, reale o metaforico, fondamentale in romanzi come Diario di Rondine, Cosmetica del nemico e Le Catilinarie; ma anche il lutto come perdita, come ad esempio la morte del padre, avvenuta qualche anno fa e che l’autrice ha già raccontato in un altro dei frequentissimi romanzi che dà alle stampe. Qui in Psicopompo, per la prima volta, l'autrice introduce un nuovo tema: la morte di se stessa. La dolorosa esperienza di una violenza subita da ragazzina occupa appena mezza pagina del romanzo, una straziante scena che dimostra tutta la brevitas e l'intensità che rende inconfondibile lo stile di Nothomb; ma Psicopompo è interamente dedicato a come, in seguito a questo evento, Nothomb abbia per tutta l’adolescenza attivamente ricercato la morte, il ritirarsi dal mondo. Come uno degli uccelli tanto amati dalla giovane Amélie, si era convinta che per volare, per librarsi sopra alle cose e lasciarsele alle spalle, bisognasse pesare poco, essere fragili e delicati; ma l’anoressia dell’autrice si rivela, più che un librarsi sopra la pesantezza delle cose, un lungo cammino verso gli inferi, un'infinita danza con la morte. Che si interrompe solo a vent’anni, con la scoperta della scrittura.

La scrittura diventa così un’alternativa alla ricerca della morte – ma anche la scoperta di un diverso modo di volare. Un modo leggiadro e robusto insieme, la scelta quotidiana di un itinerario che, una volta intrapreso, non potrà mai aver fine. In questo senso, la scrittura diventa un modo diverso di vivere, una vita che in sé include anche la morte, incarnata dalla possibilità della fine della scrittura, di questo lungo dialogo con se stessi e con il prossimo che Nothomb intraprende libro dopo libro ormai da decenni.

Cocteau, nella Difficoltà di essere, dà una definizione di ciò che chiama la linea dello scrittore: la grande abilità con cui quest'ultimo, avanzando sulla corda tesa della scrittura, recupera l'equilibrio proprio nel momento in cui sta per cadere. Lo stile è esattamente quello: l'insieme delle tecniche che ogni vero autore mette a punto per impedire alla sua frase di crollare. È anche per questo che non credo alle cancellature. Nel mio caso cadere significa morire. Se ogni tanto mi capita di cancellare, è perché dopo un battito d'ali mancato sono riuscita a riprendermi aggrappandomi a un ramo. Se piombo al suolo significa che il manoscritto è fallito. La resurrezione avverrà in un ulteriore manoscritto, non nel testo che ha determinato la mia caduta. Quando Rilke dice che la scrittura deve essere questione di vita o di morte, io non ci vedo nessuna metafora.

Una danza, un equilibrismo, un volo: tanta vita, tanto movimento, ma che racchiude sempre in sé il proprio contrario, la minaccia della morte, del silenzio e dell'immobilità. Per Nothomb, vivere è scrivere: e non possiamo che esserne contenti, se ciò significherà poterci godere un suo romanzo dopo l'altro per ancora molti anni a venire.

Marta Olivi