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"Sergente immortale": Joe Kelly e Ken Niimura tornano a scavare negli abissi di dolore di complicato rapporto padre-figlio

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Sergente immortale
di Joe Kelly + Ken Niimura
Bao Publishing, 2023

pp. 408
€ 24.00 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)

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Attesissimo, ad alcuni anni di distanza da I Kill Giants (di cui abbiamo scritto qui), esce per Bao il nuovo graphic novel della ormai rodata coppia Joe Kelly e Ken Niimura. Come già nel precedente volume, il duo riesce a conquistare fin da subito il lettore grazie all’eccellente caratterizzazione dei personaggi, in un’opera che presenta però tratti ancora maggiori di complessità.

Il protagonista, Jim Sargent, è un detective affermato, ormai alle soglie della pensione. Dopo aver immolato la sua vita al lavoro, non riesce ad accettare l’idea di un tempo in cui questo non sia centrale e respinge con ostilità tutti i consigli più o meno beffardi di amici e colleghi che lo invitano a dedicarsi al golf e alle “donnine”. Uomo cinico e beffardo, grande bevitore, politicamente scorretto e orgogliosissimo della propria aria da duro, nonché della propria Cadillac Coupé De Ville del ‘72, Jim è una figura decisamente ingombrante per chi gli sta intorno. Certo non lo è per il figlio Michael, che è quanto di più diverso da lui si possa immaginare. Ideatore di videogiochi inconcludente, ostaggio un po’ del padre padrone, un po’ della moglie avvocato, sempre più sicura e decisa di lui, il giovane – ma neanche poi così tanto, considerando che ha a sua volta tre bambini – subisce e non reagisce, appoggiandosi a mantra fallimentari e inutili manuali di autoaiuto per restare zen in mezzo alla carambola disordinata che è la sua famiglia.

È quasi per caso che i due si trovano coinvolti insieme in una pericolosa missione on the road: Jim ha infatti l’occasione di risolvere un caso che lo ha perseguitato per anni, nella forma della presenza ossessiva di una scarpetta di bimba, che lui ricompone nella sua memoria al corpo esanime che l’ha perduta. Michael si trova costretto a decidere se seguirlo o meno e, benché tutto gli faccia pensare che si tratti di una pessima idea, cede di fronte all’inaspettata, quasi inaudita, richiesta d’aiuto del padre.

Mentre macinano miglia, all’inseguimento di un bus diretto in Georgia, Michael per la prima volta riesce a vedere in Jim qualcosa di nuovo: ne nota l’attenzione agli altri sotto i modi ruvidi, la capacità di leggere le storie altrui oltre l’apparenza («Vedi quel bus? […] Ogni cosa è un bus, quando non sei accecato da una testa piena di stronzate»). Tuttavia non è facile cancellare anni di mortificazioni, di battute sgarbate, di disattenzione. Non è facile superare le differenze ideologiche e il razzismo neppure troppo velato dell’altro, fondato su stereotipi accumulati caso dopo caso in una carriera decisamente lunga («Ogni parola che hai appena detto è il motivo per cui tutti al momento odiano gli sbirri.»). Non si riesce a non pensare alle implicazioni di quella che si configura sempre di più come una spedizione punitiva dagli esiti prevedibili e infausti.

Date queste condizioni si può – il lettore se lo chiede continuamente, e continuamente ne dubita – ricominciare da capo, con un rapporto nuovo, da impostare su nuove fondamenta? Tutto farebbe pensare di no, perché Jim è posseduto dal suo incubo, e le figure di Michael e della bambina morta di sovrappongono e si confondono nella sua mente in modi che non si possono dire.

Come in I Kill Giants, gli autori si rivelano abili nell’esplorare gli abissi di dolore che si annidano nell’essere umano, così come le diverse maniere in cui vengono proiettati all’esterno, e si ripercuotono sull’intero universo relazionale. In Sergente immortale la trama noir si mescola sapientemente a quella di formazione, a una storia di padri e di figli, ciascuno dei quali ha qualcosa da imparare su se stesso e sull’altro.

La famiglia di Jim, nel suo complesso, ha tratti talmente estremi da creare situazioni tragicomiche, pur in una trama che si mantiene seria nelle intenzioni e nel messaggio. A farsi portavoce della verità è Rhoda, ex moglie di Jim, ora sposata con un’altra donna:

“Strati. […] Siamo tutti composti da più identità. Alcune buone, altre meno… Accettarlo in me mi ha permesso di accettarlo negli altri. Non sono stupida. Non sono debole. Non sono cieca. Scelgo di aiutare il mio ex, nonostante i suoi difetti, perché con me ha fatto il meglio che poteva. Non è colpa sua se è rotto, e non è colpa mia se gli ho spezzato il cuore.”.

Jim è un uomo con molti demoni, incapace di esprimere e dar forma al proprio sentire. Le parole sono usate come armi, proiettate contro tutti. E le abitudini di una vita sono dure da sradicare. Può aiutare, forse, trovarsi di fronte alle proprie peggiori paure, guardarsi dall’esterno per vedersi davvero e fare, se non un vero e proprio cambiamento, impossibile dopo una vita, almeno qualche timido passo.

Per comprendere appieno la storia, e i motivi per cui riesce a essere così forte e così vera, bisogna leggere la postfazione di Joe Kelly, che riconduce a una matrice autobiografica prima insospettata, ma al tempo stesso permette di inserire la narrazione nel contesto di una società complessa, di un tempo in cui le forze dell’ordine, il loro uso della forza, gli stereotipi e i pregiudizi che ne alimentano spesso la mentalità sono oggetto di attenzione e spesso protagonisti di brutte notizie di cronaca. L’intento di Kelly e Niimura non è certo quello di disinnescare un importante tema sociale, semmai quello di accendervi sopra un riflettore che ne riveli le contraddizioni. Torna qui il tema, centrale, della stratificazione dell’essere umano, in qualunque contesto sia inserito:

Il personaggio del sergente è stratificato. Crede profondamente nella giustizia, ma è accecato da pregiudizi rinforzati da una visione limitata del mondo. […] Nonostante l’età, il sergente sta finalmente, e quasi inconsapevolmente ragionando sul proprio ruolo di uomo bianco complice di un sistema implicitamente razzista e disumanizzante. A volte gli riesce, altre no. La storia non cerca scuse per il suo comportamento. Comprensione e perdono (o meno) sono appannaggio del lettore.
Sergente immortale non è un’opera semplice, né da scrivere (il terreno è sdrucciolevole e agli autori costa infatti quattro anni di lavoro), né da leggere (poiché obbliga a confrontarsi con un personaggio scomodo e sgradevole). Al contempo, riesce però a essere spiazzante e commovente per il modo in cui costringe chiunque a interrogarsi, a scavare per vedere cosa si nasconde oltre la superficie, e il grande lavoro di resa fatto dagli autori.

Carolina Pernigo