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«C'era una volta un Io, Io una volta ero un Pronome Neutro»: la fuga da un'appellativo di genere raccontata in "Perché sono da sempre un corso d'acqua" di Kim de l'Horizon

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Perché sono da sempre un corso d'acqua
di Kim de l'Horizon
il Saggiatore, ottobre 2023

Traduzione di Silvia Albesano 

pp. 344
€ 18,05 (cartaceo)
€ 8,99 (eBook)

«Volevo raccontarti la mia costante paura del mio corpo: com'è starsene sotto una coperta sotto il letto con quel mostro tremendo. Solo che non è una coperta, è la mia pelle. Una paura come quando vivi in una capanna sgangherata e arriva una tempesta. A un tratto, non è che arrivi la tempesta, la tempesta è lì: sempre, ovunque,, senza via d'uscita. A volte la sensazione che sia tutto okay, che vada bene vivere in questa capanna. E a volte, a fasi alterne, la sensazione di essere sbagliati - il terrore abissale, onnidistruttivo di essere sbagliati fin nell'ultima fibra. Il desiderio di estrarre da me ogni cellula con una pinzetta finissima e di scioglierle nell'acido» (p. 179-180)

Kim de l'Horizon (il suo nome d'arte è un'anagramma del suo nome di nascita) è una persona non binaria che rifiuta la dicotomia maschio o femmina. Il suo libro Perché sono da sempre un corso d'acqua è una narrazione autobiografica come tentativo di trovare un modo per parlare del suo corpo e della sua identità di genere in tedesco, una lingua che, come l'italiano, obbliga sempre a specificare il genere. Con un enorme energia creativa il personaggio del romanzo, e l'autore stesso, cercano il proprio linguaggio autentico e non conforme. Ma che tipo di narrazione c'è in un corpo che sfida le nozioni convenzionali? 

Quando sua nonna inizia a perdere la memoria, Kim cerca di riempire il silenzio scavando nei suoi ricordi d'infanzia, solo per essere in balia di una rabbia infinita e di una terribile tenerezza. È questo il senso della famiglia: nascondere, seppellire, deridere, ferire e allo stesso tempo cullare e proteggere. Per cambiare la propria storia, bisogna prima conoscerla e i rami del suo albero genealogico sono pieni di donne la cui vita ha assunto forme diverse e non si è mai conformata agli instancabili sforzi per la libertà. Kim guarda sotto le ferite evidenti e anche sotto quelle nascoste, sotto le ferite ereditarie perché sembriamo tutti alla costante ricerca di modi per parlare di noi stessi e di ciò che è impresso nel nostro sangue. Sentiamo la necessità di inventare un nuovo linguaggio, un linguaggio che gocciola, cade, si confonde, scorre, si tradisce e fluisce. Saper tessere l'esistenza dall'assenza perché una volta imboccato il sentiero della ricostruzione è impossibile tornare al punto di partenza. Quando si chiude il cerchio la linea finale si discosta di qualche millimetro da quella iniziale e quella che sembrava una forma perfetta si rivela in realtà piena di spigoli opachi, come un corpo malridotto. 

Il protagonista di Perché sono da sempre un corso d'acqua ha lasciato il piccolo villaggio svizzero in cui è nato per trasferirsi nella grande città e, quando la nonna si ammala di demenza, si rivolge a lei per parlare di tutte le cose inarticolate che pesano sulla famiglia, a partire dalla sua identità di genere non duale e dal razzismo della nonna stessa: perché della propria infanzia ci sono solo ricordi frammentati? Perchè la nonna riesce a malapena a differenziarsi dalla sorella, morta, prematuramente? E che fine ha fatto la prozia scomparsa da giovane? Il narratore si oppone alla cultura del silenzio delle madri e indaga la linea di sangue femminile non tradizionale. Si tratta di una dimensione finora inesplorata della narrativa familiare e intergenerazionale: vivere in un corpo dal genere non conforme significa non avere (ancora) un posto nel mondo, per cui sono urgenti e imprescindibili tutte le possibilità di linguaggio per riconoscersi ed esistere.

Grossmer, in tedesco bernese nonna, è una figura assolutamente ambivalente, un oceano, un drago, una strega del ghiaccio, una donna di cattivo gusto e con idee razziste. Tuttavia, è anche un punto di attrazione nella cui genealogia femminile l'io narrante si colloca per capire "com'era essere te: una normale donna della classe medio-bassa della Svizzera del XX secolo". Il bambino che ritorna sempre nella storia, non è altro che il protagonista stesso nominato in terza persona, esattamente come qualcuno a cui egli stesso non è mai appartenuto. Un fanciullo timido ma dolce, affezionato più alla natura che alle persone. Parla con le castagne, il faggio rosso sangue e si rifugia nel pollaio cercando di dare sfogo e tradurre in linguaggio la sua personalità, ma si sottrae alle mani ruvide e alle voci che lo chiamano rendendosi invisibile, di un'invisibilità costante in modo che non sia più così insostenibile la sua presenza e che non occupi più così tanto spazio. L'amore di sua madre è enorme, divorante ma solo fin dove comincia la virilità. Una storia costruita esattamente come una matrioska, di cui di volta in volta, dai tanti lati, si scorge una parte della storia diversa, ambigua e sfuggente. Una ricerca che conduce a biografie segrete di due donne della famiglia, una morta giovane e un'altra rimasta incinta e poi finita in prigione. 

In modo sottile e poetico, la storia parla dell'esperienza che si tramanda tra genitori, nonne e bisnonne, e di come le persone siano radicate l'una all'altra:

«È ingenuo pensare che le storie che raccontiamo di continuo non ci facciano niente, che non ci facciano, ed è altrettanto ingenuo pensare che queste storie non abbiano alcun interesse proprio. Io credo che queste storie ci si costruiscano attorno, che non percepiamo il mondo attraverso il loro alfabeto. E credo al fatto che le storie che non raccontiamo, neanche a noi stessi, siano poi tutta un'altra storia» (p. 59)

Perché sono da sempre un corso d'acqua è un romanzo che si propone come atto di liberazione stilisticamente e formalmente unico dalle cose che portiamo avanti senza chiedere: genere, traumi, appartenenze di classe. Kim de l'Horizon si propone di ricercare altri tipi di conoscenza e trasmissione, di racconto e di scoperta di sé, scardinando così le forme lineari della narrativa familiare e avvicinandosi a una scrittura fluida, che non determina ma apre. Da questo campo di tensione, l'autore sviluppa una poetica ricerca di sé che si dispiega nel processo di scrittura con la stessa arte e furia, con una tale esuberanza letteraria pop tesa. In cinque capitoli e atti, il sé narrativo cerca sostegno, certezza e consocenza in molte direzioni, sicuro del fatto che ogni volta che si pensa di produrre ricordi, in realtà si è occupati con forme di divenire. Ancora e ancora, ogni momento sembra essere pieno di libido pronunciata, di desiderio fisico, di una lussuria esplicita che trova soddisfazione nell'autodregradazione, così l'ego, disteso a casa sul divano, maltrattato e ferito nell'orgoglio, trova il tempo nell'angoscia e nel dolore per raccogliere il suo materiale ancora frammentato. 

Tutto questo dimostra come Kim de l'Horizon accompagni il lettore, in modo vitale, indisciplinato e senza preoccuparsi della correttezza morale o politica, in uno strano viaggio attraverso la propria coscienza, il proprio corpo, la propria identità non binaria. L'esaltazione del sé narrante è ripetutamente legata a uno stile di scrittura riflessivo e autoironico che cattura ricordi dell'infanzia e di Grossmeer in una lingua che spesso contiene sfumature dialettale autentiche e ciò che rimane alla fine della lettura è una leggera vertigine. Perchè sono da sempre un corso d'acqua vincitore oltre che del Deutsher Bushpreis anche del premio per il miglior libro svizzero, di quello della fondazione Jurgen Ponto e di quello della città di Zurigo, è allo stesso tempo il simbolo di una generazione che fa i conti con il presente. In una società dominata dal patriarcato, con l'obiettivo di dissacrare e denunciare ciò che il passato è stato per le donne, in particolare sul suolo svizzero Kim ammetterebbe come unico mantra:

«Io spezzo il cerchio dei figli che uccidono i propri genitori per essere liberi, per diventare se stessi. Io non uccido i miei genitori. Io metto al mondo le mie madri» (p. 112)

In una modalità di scrittura caratterizzata da frequenti cambiamenti di genere, registro e tono, Kim de l'Horizon si muove senza soluzione di continuità tra descrizioni dettagliate di sesso anale brutale e meditazioni liriche sulla solitudine infantile attraverso riflessioni accademiche su Foucault, Goethe e la moda ottocentesca dei Blutbuchen, tutto solo per arrivare a un linguaggio scritto appropriato e a un linguaggio del corpo autentico. Ma il tempo è semplicemente un costrutto. Lo stesso costrutto fallace cui in futuro le cose non potranno che andare meglio:

«Ciò che è lento, profondo, latente, ciò che porta, trascina, si infrange, ciò che affoga, trattiene, dà vita, ciò che non si esaurisce, riflette, accoglie mostri, disperde. Perché sono da sempre un corso d'acqua, il mio corpo si è sempre percepito come un fluire, un essere in movimento» (p. 57)

Perché sono da sempre un corso d'acqua è un romanzo che non assomiglia a nessun altro perché è il racconto di tutte le nostre esistenze.

Serena Palmese