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Il ruolo della fotografia di guerra sulla coscienza collettiva e del singolo: uno straordinario saggio di Susan Sontag

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Davanti al dolore degli altri
di Susan Sontag
Edizioni Nottetempo, marzo 2021

Traduzione di Paolo Dilonardo

pp. 160
€ 15 (cartaceo)
€ 7,99 (e-book)


Fino a quando proviamo compassione, ci sembra di non essere complici di ciò che ha causato la sofferenza. La compassione ci proclama innocenti, oltre che impotenti. E può quindi essere (a dispetto delle nostre migliori intenzioni) una reazione sconveniente, se non del tutto inopportuna. Sarebbe meglio mettere da parte la compassione che accordiamo alle vittime della guerra e di politiche criminali per riflettere su come i nostri privilegi si collocano sulla carta geografica delle loro sofferenze e possono - in modi che preferiremmo non immaginare - essere connessi a tali sofferenze, dal momento che la ricchezza di alcuni può implicare l'indigenza di altri. Ma per un compito del genere le immagini dolorose e commoventi possono soltanto fornire una scintilla iniziale (p. 119)

Nottetempo da qualche anno pubblica i saggi di Susan Sontag, l'ultimo proprio lo scorso settembre, Sotto il segno di Saturno, una disquisizione sui grandi melanconici dell'arte e della letteratura. Questo invece, Davanti al dolore degli altri, uscito per la prima volta nel 2003, tratta di un'altra tematica, quella della fotografia di guerra, del ruolo delle immagini macabre e violente sulla nostra vita e su come queste stesse immagini vengano utilizzate per influenzare il corso di un conflitto.
L'autrice si sofferma spesso, com'è ovvio, sulle grandi guerre, ma anche su quelle più "piccole", e con piccole intendo meno fotografate perché meno interessanti mediaticamente, meno spendibili per inorridire, creare dibattito, accendere le proteste: Sontag nomina, ad esempio, i massacri e gli stupri di Nanchino nella guerra sino-giapponese tra il 1937 e il 1938, i crimini meno conosciuti della guerra del Vietnam, lo sterminio del popolo Herero in Namibia (un vero e proprio genocidio) e lo fa attraverso l'analisi delle fotografie che vi furono scattate (o non vi furono scattate).
Di fatto, Sontag non solo si domanda, mettendo in dubbio alcune delle sue stesse affermazioni passate, quale sia il ruolo delle fotografie di guerra (che mostrano corpi mutilati, cadaveri, uccisioni, esecuzioni e sterminio generale) sulla coscienza di chi è dall'altra parte, ma soprattutto pone il quesito dei quesiti: è possibile una riproduzione del dolore? Quanto è autentica una foto che cattura l'attimo in cui un uomo muore? Ed è davvero così, quell'uomo sta morendo proprio in quell'attimo, davanti all'obiettivo? A beneficio di chi?
Famosissima e molto controversa da questo punto di vista è la fotografia di Robert Capa che congela il momento in cui un miliziano spagnolo cade all'indietro perché sparato alla testa.

Possiamo sentirci obbligati a guardare fotografie che documentano grandi crimini e crudeltà. Ma dovremmo sentirci altrettanto obbligati a riflettere su quel che significa guardarle, sulla capacità di assimilare realmente ciò che esse mostrano. Non tutte le reazioni provocate da tali immagini sono controllate dalla ragione e dalla coscienza. La maggior parte delle rappresentazioni di corpi martoriati e mutilati suscitano, in effetti, un interesse pruriginoso (p. 111)

Sontag insiste sulla questione del voyeurismo: nonostante siamo inorriditi da certe immagini, non possiamo negare che attirino la nostra attenzione. Perché? Perché siamo fortunati a essere dall'altra parte? O, più sottilmente, perché sotto sotto ci fa piacere assistere come spettatori privilegiati al dolore degli altri?
Molte le fotografie (e non solo, Sontag ci racconta anche pittori e artisti, come Goya e Picasso) prese in esame: quella già citata di Robert Capa, le fotografie scattate in Vietnam (purtroppo molto famosa quella dei bambini che corrono nudi per strada scappando da un villaggio colpito dal napalm), le lastre esposte durante la prima guerra mondiale, che per forza di cose, per via del peso e della difficoltà di utilizzo delle vecchie macchine fotografiche, erano statiche, senza corpi, paesaggistiche; e poi quelle della seconda guerra mondiale, dei campi di concentramento, della guerra degli Usa in Afghanistan, l'urto mediatico delle dirette televisive nella guerra in Bosnia
L'autrice si concentra su concetti come la memoria collettiva, il valore etico delle immagini di sofferenza, sul ruolo che i morti, i nostri o quelli degli altri, hanno quando ci scorrono davanti ogni giorni, in tv, alla radio, al telegiornale, sui cellulari, ovunque. Sontag si chiede: è proprio vero, come ho sostenuto in altri miei saggi, che la sovraesposizione del nostro cervello a tali immagini violente ci rende anestetizzati? La compassione può subire un congelamento?
Anche nel caso in cui un lettore non sia interessato al tema della guerra (come me) credo che questo sia un testo da leggere ugualmente: le domande che Sontag pone si possono applicare a qualsiasi ambito della creazione di immagini, non solo immagini di guerra, persino alla creazione di testi, di narrativa, di saggistica e così via, perché le stesse domande valgono tanto per l'arte visiva come per quella scritta.
Lo consiglio vivamente a tutti gli appassionati di fotografia e a chi ha bisogno di aprirsi la mente sul tema: questo saggio è aria fresca.

Deborah D'Addetta