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«Quando le donne pensano da sole, pensano il male, così si dice»: "Le streghe di Manningtree", l'esordio alla narrativa della poetessa inglese A.K.Blakemore

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Le streghe di Manningtree
di A.K. Blakemore
Fazi, ottobre 2023

Traduzione di Velia Februari

pp. 336
€ 18,50 cartaceo
€ 9,99 ebook


Rabbia. Frustrazione. Sono i sentimenti che accompagnano la lettura di Le streghe di Manningtree, il potentissimo esordio nella narrativa della poetessa inglese A.K. Blakemore, di recente pubblicato da Fazi con l’accurata traduzione di Velia Februari. Un romanzo che sapientemente intreccia storia, invenzione letteraria, elementi sovrannaturali e che attraverso il filo della ricostruzione storica permette però di riflettere anche su discriminazioni e soprusi attuali. Le streghe di Manningtree è il racconto corale della caccia alle streghe in una piccola cittadina dell’Essex e del processo che ha investito alcune di loro: ciò che rende particolarmente interessante e forte la narrazione è proprio la capacità di Blakemore di ricreare il contesto sociale e storico entro cui la caccia alle streghe si sviluppa, l’intreccio di realtà e finzione letteraria a colmare i vuoti delle documentazioni ufficiali e la rappresentazione dell'iter che dall'accusa sfocia nella condanna. La lingua lirica e affabulatoria – cui va il plauso a Februari per una traduzione sicuramente non esente da rischi – crea una storia vividissima di particolari, che intreccia immaginifico e reale, mistero e brutalità: è la lingua della poesia messa al servizio della prosa, ma che mantiene il gusto per la ricerca stilistica, per le immagini evocative, per la musicalità e che dà forma al mondo di Mannigntree e ai personaggi che lo abitano.
Uno degli elementi che rende interessante il romanzo di Blakemore, oltre alla percezione del forte lavoro di ricerca storica su cui si basa, è l’attenzione posta al contesto entro cui la caccia alle streghe prende forma: quell’intreccio di paura, religione, superstizione, rabbia, povertà e patriarcato che condanna ciò che non è conforme alle regole maschili, ciò che non comprende o che conviene mettere a tacere, eliminare.

È il 1643, l’Inghilterra è sconvolta dalla guerra civile tra Roundheads (i Parlamentari) e Cavaliers (Realisti), nella piccola comunità di Manningtree, contea dell'Essex, la maggior parte degli uomini è lontana a combattere una guerra che è anche religiosa; molte donne vivono sole, spesso ai margini della società, campando di espedienti, abbandonate a loro stesse. “Fattucchiere”, così sono chiamate quando le loro conoscenze delle erbe sono considerate utili per la comunità, rimedi per curare malattie di esseri umani e animali, aiutare in qualche modo la vita in tempi difficili. Ma è un equilibrio precario e basta il seme del sospetto a trasformare la fattucchiera in strega, in un mondo in cui le parole hanno un peso violentissimo e dove basta poco per far condannare una donna. Rebecca West e la madre si muovono ai margini della comunità di Manningtree ed è chiaro fin da principio che la vedova Beldam West ("Bell" da bella e "dam", dannata) sia tutt’altro che una donna remissiva e sottomessa al potere degli uomini. Incauta, forse, bellicosa, la lingua tagliente e una certa propensione all’alcol, si aggira per la campagna in apparenza incurante delle voci che circolano su di lei e la sua “congrega”. Discorso diverso invece per la figlia Rebecca, tesa tra il mondo della madre e il timore religioso, alimentato dalle ore trascorse a studiare insieme allo scrivano di cui è infatuata e che le sta insegnando a leggere le Sacre Scritture. In questa prima parte – cui nei capitoli iniziali avrebbe giovato un editing più puntuale capace di sciogliere certi nodi narrativi – l’attenzione di Blakemore è tutta concentrata sull’evocazione di un mondo, di una comunità, del rapporto conflittuale tra una madre e la figlia, mentre poco a poco si delinea la tensione tra l’immagine che vogliamo dare di noi e ciò che in realtà siamo davvero. È un intreccio di paure, rifiuto, rabbia e ribellione, che esplode improvviso e violento:
Questo è il momento in cui mi rendo conto che la mia vita non sarà più normale. Qualcosa è iniziato, e vi sono legata a doppio filo. (p. 63)
Quella di Manningtree è una comunità piccola, in cui basta poco per trasformare uno sgarbo o un’antipatia in qualcosa di più grande e pericoloso. L’arrivo del nuovo locandiere, Matthew Hopkins, e le idee che porta con sé non fanno altro che fornire un fiammifero con cui dare fuoco alla miccia già pronta. Personaggio storico reale, come lo sono la stessa Rebecca West e molte delle donne citate nel romanzo, Hopkins diviene presto l’Inquisitore: la sua campagna contro le streghe inizia proprio da Manningtree e saranno centinaia – seppure la stima oscilli sensibilmente – le donne da lui accusate di stregoneria e processate. Basta un attimo, quindi, a innescare il sospetto e la condanna nei confronti di quel gruppo di donne sole, una dopo l’altra, perché il terreno è già pronto.
All’alba tutti concludono che l’unica spiegazione per il malessere fuori dal comune di Thomas Briggs può essere solo la stregoneria. Un maleficio. Entro metà mattina, quasi tutta la città è stata raggiunta dalla notizia. (p. 87)
Intorno a Hopkins si raduna un gruppo di sostenitori, uomini e donne, mossi più dal desiderio di vendetta personale che da reale timore religioso: vecchi sgarri, paure recondite e superstizioni, cui rispondono urlando alla strega.
Gli uomini vagano per la città a piccoli gruppi e con uno scopo ben preciso, uno scopo che tutti conoscono. Sono inquisitori. (p. 138)
Blakemore evoca con precisione e intensità ricca di dettagli un mondo dominato dalla paura e dall’odio, in cui il corpo delle donne è ancora una volta abusato e umiliato, scandagliato alla ricerca del marchio del diavolo; in cui, soprattutto, il fervore religioso è solo un’eco lontana perché il pericolo è tutto nell’odio personale, nella meschinità, nel sospetto, e trasforma uomini e donne vicini di casa in inquisitori pronti a rovinare per sempre una vita.
Tra fiction e accuratissima ricostruzione storica quindi, Le streghe di Manningtree dà voce e corpo alle donne coinvolte nel processo, partendo proprio dagli atti di cui sono inseriti numerosi stralci: donne braccate, sotterfugi e astuzie per sfuggire all’accusa, tradimenti e, infine, il lungo periodo di prigionia, la sporcizia, le torture, i dubbi. È, per certi versi, un romanzo ambizioso, che non si accontenta di raccontare una favola nera o insistere sul dettaglio violento, ma svelare i meccanismi più oscuri e pericolosi del sistema corrotto e malvagio su cui si è generata la caccia alle streghe; saremmo ciechi a giudicarlo solo come un episodio relegato nel passato, un passato oscuro e che non ha più nulla a che spartire con la realtà contemporanea. Perché cambiamo le parole, i modi o le etichette, ma le donne non conformi sono ancora vittime del giudizio, pericolose, diverse. Streghe, in qualche modo. Messe a tacere, sminuite, guardate con sospetto se rifiutano convenzioni e regole sociali imposte. Il corpo abusato, la voce silenziata. Altrove come qui. È questa la carica esplosiva di un romanzo come quello di Blakemore o, sempre per restare al catalogo Fazi, di Weyward un testo che vale la pena recuperare anche ora che è uscito un po’ dai radar e dalle tendenze del momento: storie di streghe, ma soprattutto di donne che si scontrano – non vittime, mi rifiuto di usare questa parola – con il patriarcato. E qualche volta riescono a sconfiggerlo.

Rebecca West nella realtà confessò rispondendo alle accuse di stregoneria e subito dopo il suo nome sparì dagli atti e dalla storia. Nell’invenzione letteraria di Blakemore la sua vicenda ha un finale molto forte, delle cui scelte narrative non sono stata pienamente convinta ma che nelle ultime battute mi pare l’epilogo ideale per la sua e per la storia di molte donne come lei. Al lettore naturalmente il piacere di scoprirlo, come il gusto di godersi gli intrighi di una trama generalmente ben costruita e retta, si diceva, da uno stile immaginifico e brutale. Ma una cosa è a mio avviso fondamentale: non limitiamoci a leggere questo romanzo come la perfetta lettura autunnale, le atmosfere sospese tra realtà ed elemento sovrannaturale; cerchiamo tra le pagine qualcosa di più, cerchiamo in quella società così efficacemente evocata i segnali di una realtà che ben conosciamo, in cui il sospetto e la paura si scagliano ora contro un certo talento delle donne, ora contro lo straniero, ora contro il diverso chiunque esso sia. Perché è proprio lì, nella ricostruzione di Manningtree e del sistema che ha permesso a uomini senza scrupoli di perseguire e condannare tantissime donne accusandole di stregoneria che vanno ricercate le radici del male: non è stato un annebbiamento collettivo, non è qualcosa di radicato nell’epoca in cui si è sviluppato e giustificabile solo con quel miscuglio di ignoranza, superstizione, paura. È qualcosa di molto più sottile, pericoloso perché ripetibile, come altri mali del passato che vediamo replicati. Ed è questo, quindi, a rendere l’esordio di Blakemore tanto interessante e valevole, da far passare in secondo piano mancanze e difetti di un’opera prima.

Ambivalente e complesso è poi il rapporto tra Rebecca e la madre, dalle prime battute all'epilogo. Un’indagine interessante, che scardina rappresentazioni stereotipate per dare voce alle contraddizioni di un legame di sangue e rabbia, di distanze e incomprensioni che il destino comune non cancella come per incanto ma ne preserva l’essenza, l’individualità e le differenze nell’amore. La Beltam West è una donna forte, testarda, la lingua che corre veloce quanto il bicchiere che si scola giù al pub e una maternità che si delinea anche nelle pieghe più oscure, in quel che normalmente non si racconta, come anche nella forza, nell’orgoglio e nell’istinto alla sopravvivenza che è il suo lascito più importante.
Allora penso a mia madre e alle sue stranezze. L’amore spericolato per la sopravvivenza che la fa somigliare a un animale, selvatico e inconoscibile. L’orgoglio, che non le fa difetto, e che intende trasmettermi, così come altre donne tramandano alle figlie un bel corredo e un paio di orecchini di perla. Vuole donarmi l’orgoglio, ma io non intendo accettarlo, perché ho visto quanto ha dovuto lottare per mantenerlo. Lo spirito di sopravvivenza, invece, questa sì che è una dote più interessante. E se siamo destinate a sopravvivere, sopravvivremo solo insieme. (p. 134)
Lo stesso personaggio di Hopkins modellato da Blakemore è complesso, sfaccettato: l'Inquisitore, un uomo pio e freddo che diventerà tra i più feroci cacciatori di streghe dell'epoca, di cui l'autrice sceglie di scandagliare le contraddizioni umane, la brama di potere, la crudeltà sottile. 
Quale sarà il destino di queste donne è da scoprire seguendo gli intrecci e gli inganni della vicenda, su cui sempre aleggia il mistero del labile confine tra realtà e sovrannaturale. Noi lettori abbiamo qui l’opportunità di seguire con la scorrevolezza del romanzo l’iter con cui si sviluppava un’accusa di stregoneria, le figure coinvolte e le varie fasi che potevano condurre infine alla condanna; lo seguiamo mentre i dettagli si fanno materici e ci si dispiega davanti un mondo in cui forse il fervore religioso è la scusa più plausibile per spiegare l’accanimento contro le donne diverse, il pretesto per i propri tornaconti e personali vendette contro soggetti scomodi. In cui la verità è un concetto relativo e le confessioni non sono quasi mai sincere ma estorte con sotterfugi e violenza o, ancora, il mezzo per salvarsi. Condannando qualcun’altra. E no, Le streghe di Manningtree non è un libro sulla sorellanza, sul coraggio delle donne contro l’oppressore. È un libro di ombre, di meschinità, storture e crudeltà; ma anche, allo stesso tempo, di forza, orgoglio e un innato spirito di sopravvivenza. Un libro di sangue e corpo.

Debora Lambruschini