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Di spiritismo, cristianesimo e occupazione: «Sister Deborah» di Scholastique Mukasonga

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Sister Deborah
di Scholastique Mukasonga
traduzione di Giuseppe. G. Allegri
Utopia, settembre 2023

pp. 136
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

E una notte fece un sogno, non un incubo, ebbe visioni fantastiche dell’Altro Mondo, forse quello da cui provenivano gli americani. Vide Sister Deborah e Ragagara. Sister Deborah danzava davanti al vecchio chef. E credette di sentire che il padre diceva alla danzatrice:
«Conduci mio figlio nel luogo del mio riposo». (p. 31)

La storia di Sister Deborah (o Sorella Deborah, o Suor Deborah) si basa su fatti reali: nel 1927, infatti, una profezia annunciava l'arrivo di una donna nera che sarebbe emersa da un lago portando con sé un seme miracoloso che avrebbe eliminato la carestia e scacciato gli invasori bianchi. Da qui prende avvio la narrazione di Scholastique Mukasonga, scrittrice ruandese di etnia tutsi – una delle due principali etnie del Ruanda, nonché la parte offesa nel genocidio del 1994 – che ha deciso di costruire il proprio romanzo in francese, ossia nella “lingua del colonizzatore”. Come affermato da Alain Mabanckou nel saggio Otto lezioni sull’Africa, di recente pubblicazione per E/O e da noi affrontato qui, gran parte della letteratura africana utilizza il francese anziché le lingue locali, e questo sia perché queste ultime sono spesso affidate alla tradizione orale, sia perché in questo modo il pubblico di riferimento risulta decisamente più ampio.

La storia di Sister Deborah, che mescola invenzione letteraria e fatti reali, viene narrata da ben tre punti di vista. La prima metà del libro affronta il rapporto complicato di Sister Deborah prima con il chef Ragagara e poi con suo figlio Musoni, per passare infine alla rivolta delle donne ruandesi sedata in maniera durissima dalle forze locali. Successivamente, viene ripresa dal punto di vista di Sister Deborah in persona, che racconta la propria versione partendo dagli Stati Uniti, dove scopriamo le sue origini e le motivazioni che spingono lei e la sua équipe a intraprendere un viaggio sin dall’inizio considerato pericoloso nel cuore dell’Africa. Infine, a raccontare l’epilogo della vicenda è una ricercatrice intenzionata a studiare quanto accaduto alla donna che, quando lei era bambina, l’ha salvata da una morte certa con le proprie cure: Ikirezi raggiunge dunque la bidonville di Nairobi, dove Sister Deborah si è rifugiata ed è nel frattempo divenuta Mama Nganga, e qui scopre la verità taciuta negli anni.

Sister Deborah è un romanzo che pone al centro il rapporto con la verità: la verità di una storia che assume contorni diversi se a raccontarla sono le forze locali di un Paese, le persone direttamente coinvolte e che hanno agito per fare il bene, o infine una ricercatrice che vuole indagare i fatti nudi e crudi. Inutile dire che non esiste una verità assoluta, perché se i fatti sono fatti le intenzioni che muovono il tutto sono invece suscettibili di interpretazioni e manipolazioni. Dove posizionarsi all’interno dell’ampio spettro della verità è un onere affidato al lettore, che può scegliere di schierarsi con i ruandesi, con i francesi o con gli americani.

In questo miscuglio di culture emerge potente l’altro tema centrale del romanzo, che si inserisce nel filone variegato della letteratura post-coloniale africana: il rapporto con gli ex coloni e lo sfacelo che si sono lasciati dietro. In Ruanda, come in diverse altre parti dell’Africa, non è pensabile raccontare le proprie storie senza fare i conti con il recente passato. Sono trascorsi settant’anni circa da quando la bandiera francese sventolava nei territori africani eppure la presenza sua e dell’Europa tutta è ancora ingombrante. La dissoluzione del CFA, la moneta utilizzata dalla Francia per controllare le ex colonie, è avvenuta ma è innegabile che l’occupazione sia ancora in atto sul piano economico e nelle decisioni politiche dei vari paesi. A livello letterario, come si è anticipato, quanto avvenuto e quanto avviene tuttora è tema di ampia discussione nei romanzi africani.

Le conseguenze immediate del periodo coloniale si ritrovano in Sister Deborah nel melting pot religioso, ossia nel grande fiume nel quale sono confluite le religioni africane e il cristianesimo di stampo occidentale. L’escatologia ruandese narrata nel romanzo di Mukasonga vede al centro un Gesù nero che è adattamento perfetto di una religione di bianchi e che per necessità si trasforma qui in qualcosa di diverso e stratificato, così da venir compreso da chi è cresciuto con lo spiritismo e l’animismo tipico di culture altre. Per il lettore novizio è intrigante fare i conti con una religione conosciuta in un determinato modo e ritrovata con sembianze stravolte eppur familiari nonostante tutto.

Ciò che invece rende la lettura un poco complessa è la mescolanza – anche qui – di termini francesi, tradotti in italiano, e parole di origine africana, lasciate in corsivo nel testo e non sempre esplicitate dalle note a piè di pagina. Il folklore locale e la cultura africana pervadono tutto il testo ma per chi legge la difficoltà è doppia: comprendere in primis ciò di cui si sta parlando e inserirlo poi nel contesto di una narrazione già non semplice perché – come accade anche nelle tradizioni orali – l’accadimento di alcuni eventi e la conoscenza di determinati fatti sono dati per scontati.

Sister Deborah è in conclusione un romanzo breve in grado di sollevare dubbi sul concetto stesso di verità e di porre domande su domande, lasciando però insolute le risposte. È una lettura complessa, resa poco accattivante in alcuni passaggi da una mancanza di chiarezza espositiva che, pur nelle intenzioni dell’autrice, non offre appigli robusti al lettore che rischia di restare a osservare confuso il proseguire degli eventi.

David Valentini