in

Il saluto a una cultura al crepuscolo nel gotico di Antonio Armano, sesto titolo della nuova preziosa collana di Polidoro

- -
La strada dell'uomo morto
di Antonio Armano
Polidoro, settembre 2023

pp. 137
€ 15 (cartaceo)


Mai parlare di morte a un bambino.
Quel concetto va tenuto fuori la porta, nascosto nelle famiglie degli altri. Ma un bambino che conosce la morte è un bambino che conosce la vita. E quello raccontato da Antonio Armano lo sa presto quanto ogni cosa possa essere crudele.
È nonna a metterlo in guardia coi suoi racconti sanguinolenti.
È nonno a dargli le prove eliminando in successione gli animali della cascina.
C’è poi una strada che quella morte la richiama ogni istante, la stessa che dà il titolo al sesto romanzo di Interzona, collana di Polidoro inaugurata nel 2023 da Nel Rumore del fiume di Franca Cavagnoli: la strada dell’uomo morto varca un immaginario gotico di misteri, segreti e superstizioni, ed è il tramite tra campagna e città, tra l’adolescenza e l’età adulta.
Questa storia non era adatta a farci addormentare, anzi ci inquietava. In ogni caso, non era adatta a far addormentare la nonna che quando la raccontava sembrava prendersi di nuovo paura perché i suoi occhi chiari e il suo sguardo aperto si accendevano di paura quando parlavano di streghe, malocchi, disgrazie capitate nelle case dove erano stati trovati capelli, corone di peli, aghi bruciati e pezzi di stoffa macchiati di sangue all’interno di materassi o cuscini di qualcuno che si sarebbe ammalato e quindi morto se non li trovavano in tempo e non li seppellivano da qualche parte dopo averli benedetti con l’acqua santa. (p. 35)
Quel bambino cresce nella fitta campagna pavese degli anni Settanta, tra rivelazioni sinistre e le favole spaventose di streghe e di matti scappati dal manicomio - tra gustose cene a base di animali ammazzati in casa e rincorse a gatti da sopprimere prima che ci si possa affezionare: si fa adulto in un luogo che muore. Antonio Armano riscrive a tinte nerissime i miti dell’infanzia preservando la purezza dei suoi passaggi fondamentali e racconta il crepuscolo di una cultura contadina cruenta in antitesi a quella cittadina.
Se i maialini erano preziosi e la loro morte accidentale rappresentava una perdita di denaro i gattini di solito venivano fatti sparire subito dopo la nascita. Troppo presto perché noi bambini potessimo affezionarci e dare loro un nome. Così ci impietosiva solo il vagare della gatta impazzita che cercava i suoi piccoli. Ma quando la micia si chiedeva, tornando alla tana, dopo essersi allontanata, dove erano finiti, e li cercava per tutto il cortile, non poteva sospettare che la sorte dei gattini era già segnata. Erano stati annegati in una bacinella dal nonno, un catino Moplen, quello dove colava il sangue delle bestie uccise. (p. 53)
La terra non si può lavorare più come un tempo, la vita non può più proseguire in quel modo. La città è il progresso vorace. Ammalia, cattura. Il boom non riguarda tutti e inaridisce gli esclusi, quelli che restano ai margini del cambiamento. Quelli che non lo vogliono accettare. A costo di vivere di espedienti, rinunce, rancori. Non c’è spazio per speranze e illusioni. I nonni verranno sfrattati da una casa simbolo di un mondo estinzione (lo faranno in concomitanza al ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in un sinistro parallelismo). E quella strada, collegamento tra due visioni ostili, alimenta le paure e le curiosità, il terrore e l’impulso ad andare.
Perché il nostro desiderio di spingerci lontano, di fare un viaggio avventuroso senza essere ritrovati, si sfogava lungo la strada dell’uomo morto, e poi oltre con l’immaginazione ma senza deviare, perché era solo in questo modo che si poteva arrivare il più lontano possibile. (p. 27)
Desideravo qualcosa di più. Un funerale, un evento di quelli che spezzano gli orari obbligati delle giornate, che fanno diventare le comuni telefonate ai parenti comunicazioni intense, che diventano righe di inoppugnabili giustificazioni su diari scolastici, che riuniscono le famiglie con tutti i cugini che di solito non vedi mai. (p. 99)
Un umorismo tetro impregna le pagine della luce oscura che si dirama dai boschi alla cascina. Armano non scrive un libro di trama ma di simboli e atmosfere – atmosfere che guidano la storia tra suggestioni gotiche e metafore spettrali; spoglia la lingua facendo coincidere prosa e luogo del racconto: la cruda vita rurale si lega alla scrittura anticlimatica, una scrittura della natura, dei dettagli, dei suoni e dei sapori, che si sente e si vede, che ci lascia fiutare l’odore della terra e violare i suoi segreti ancestrali. Armano richiama la cinematografia più riuscita di Pupi Avati e aspetti della trama di opere come I 400 colpi (Truffaut,1959) e L’albero degli zoccoli (Ermanno Olmi, 1978) e ci affida il ricordo di un tempo andato. Lo fa con maestria innata.

Daniele Scalese