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Un assunto che può diventare domanda: Napoli come città che sfianca ma offre anche materiale narrativo senza fine

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Napoli stanca - 17 scrittori raccontano la città nascosta
a cura di Mirella Armiero
Solferino Edizioni, giugno 2023

pp. 320
€ 18,50 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)


Di Napoli, ormai, pare essere stato raccontato tutto. Lo dimostrano i film, le serie, i libri, i saggi, le guide turistiche cartacee e i reel su Instagram, ogni cosa oggi pare portare la firma del "Made in Naples". Qualcuno ha giustamente detto che la città è diventata un brand (si veda Appugundrisse: Tornare a Napoli di Paolo Mossetti per minimum fax) .
Ma cosa ne pensano gli intellettuali partenopei di questo assunto? Cosa rimane ancora da dire su un luogo iper-descritto, iper-masticato, eccessivamente romanticizzato o rinnegato?

Mirella Armiero (direttrice delle pagine culturali del "Corriere del Mezzogiorno", tra le altre cose), partendo da qui, ha chiamato in causa diciassette tra autori e autrici nati a Napoli e ha messo insieme una raccolta di interventi di vario genere - racconti, saggi, reportage - che aspirano a rispondere a questa domanda.
Napoli stanca: questo il titolo della raccolta. Non si tratta di una provocazione, ma di un dato di fatto se a dargli voce sono le persone che la abitano e la vivono, quelle che devono avere a che fare ogni giorno con i problemi legati ai trasporti, alla massiccia presenza dei turisti in ogni dove, alla spersonalizzazione di identità, alla brandizzazione che valica i confini cittadini e regionali, alla semplice eredità che un napoletano si porta dietro fin dal momento della sua nascita.
Resta il fatto che vivere a Napoli è faticoso, raccontarlo ancora di più e persino fuggire via, perché è difficile lasciarla alle spalle. (p 10)
I contenuti del testo, come dicevo, sono variegati: leggiamo Gianluca Nativo che ci racconta la periferia Nord-Est di Napoli, spiegando cosa vuol dire essere e sentirsi "gente di campagna", mentre Gianni Solla scende e ci porta a "Est-Est", focalizzandosi su San Giovanni a Teduccio; leggiamo le interviste di Peppe Fiore su quel mondo contraddittorio e affascinante che è Bagnoli e l'ex stabilimento Ilva, poi Italsider; il racconto fiction di Marco Masullo, il cui protagonista si sveglia dopo cent'anni di ibernazione per ritrovarsi in una città totalmente diversa e aliena; le esperienze reali di Eduardo Savarese che girano intorno al suo mestiere di magistrato e giudice, al carcere di Poggioreale, ma anche intorno al Vesuvio e alle sue diverse facce; l'interessante cronaca di Maurizio Braucci sugli adolescenti "scugnizzi" degli inizi del 2000 e sulla droga nel centro storico; il resoconto di Cristiano de Majo sulla progressiva napoletanizzazione di Isola, quartiere bene di Milano; e ancora le nostalgie letterarie di Fuani Marino, i ricordi di Vicenza Alfano e l'invettiva di Benedetta Palmieri.

Insomma, interventi diversi che sarebbe inutile condensare in un articolo di critica, tutti scritti allo scopo di offrire una prospettiva diversa, la spintarella per fare un passo più in là e guardare le cose con occhi nuovi. Se dobbiamo rispondere alla frase di apertura, allora questo testo fa uno sforzo nella direzione opposta, cerca di esporre questioni, luoghi, storie, personaggi ancora non del tutto esausti.
E forse "esausti" è proprio il termine chiave in questo caso.
Se Napoli stanca (ma io dico: Napoli stanca? a mo' di provocazione), com'è possibile affrontarla? Qualcuno direbbe che la risposta è l'accettazione, altri la fuga. Ma Armiero stessa in apertura ci dice che non è cosa semplice fare bagagli e partire. Restare dunque, ma a che prezzo?

Il prezzo probabilmente si riassume in termini di vita vissuta e sprecata in una metropoli tutta peculiare. Non starò qui a parlare dei problemi legati al traffico, alla scarsità dei mezzi pubblici, all'appiattimento culturale del centro storico - laddove Napoli avrebbe tutti i numeri per offrire ai suoi abitanti e al turista consapevole una ricchezza infinita - né cadrò nella trappola di difenderla a spada tratta solo perché la amo e la ritengo casa mia. 
Fatto sta che spostare il terreno di discussione sullo sforzo titanico che richiede viverla è utile, anche solo per scostarci un poco dalle attuali narrazioni che la dipingono come un paese dei balocchi o un luna park, costruiti su mattoncini fatti di pizza e laqualunque fritta. Questo sì che stanca e sta diventando parodia.
La domanda successiva nasce spontanea: a chi tocca dunque raccontare Napoli in altri termini? Ed è poi giusto farlo? Inutile dire che della città non si debba più parlare, questa è pura utopia. Non stiamo cercando di restituire dignità a San Mango Piemonte (con tutto il rispetto per San Mango Piemonte), ma a un luogo millenario, densissimo, carico di potenza narrativa.
Le contraddizioni (termine, anche questo, iper-abusato) di Napoli sono limo per l'arte. Che si parli delle sue periferie (si veda Peppe Lanzetta), del suo mare (La Capria e Sorrentino), della sua "ferrovia" (Rea), del suo dialetto/lingua, del teatro, delle chiese, della camorra, non fa differenza: tutto finisce nel calderone da cui pescare per scrivere, dipingere, fare film, video su Tik Tok, dirette su Instagram, per fare e disfare giornalismo.
Se Napoli non fosse quello che è non esisterebbero nemmeno questo testo e questa recensione, e probabilmente io, ora, me ne starei ancora in Puglia a mangiarmi le mani. 
Volente o nolente, la città ci offre ispirazione. Che poi se ne parli bene o male è indifferente, il risultato è che se ne scrive, se ne discute, la si visita, la si ama o odia. Ma indifferenza no, non è una soluzione fattibile.
Consiglio questo testo a chi ama le raccolte di racconti, anche se qui non ci sono solo storie inventate. Anzi, al contrario, la maggior parte dei contributi sono di natura autobiografica.

Deborah D'Addetta