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“Biondo era e bello”: riscoprire Dante con gli occhi di Mario Tobino

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Pubblicata per la prima volta nel 1974 e ora ristampata da Mondadori in una edizione fittissima di materiali critici, la vita di Dante Alighieri di Mario Tobino – che si scelga di leggerla o di ascoltarla grazie alla voce trascinante di Valerio Amoruso – continua a suggestionare. Non vero romanzo né compiutamente saggio, il volume sfugge anche oggi a qualsiasi tentativo di inquadramento; la stessa prosa si discioglie a tratti in ritmi poetici, come rivela in maniera molto più chiara del cartaceo il supporto dell’audiolibro.
Serve leggere la ricca introduzione di Giacomo Magrini per cogliere appieno la valenza politica di questo recupero di Dante. Iniziato, più volte rimaneggiato e concluso nell’arco di una decina d’anni, a cavallo del Sessantotto, in un momento in cui gli studi danteschi non godevano di grande popolarità, Biondo era e bello si pone in linea di continuità con altri volumi che mirano a farsi, tramite una riflessione sul Sommo Poeta, “baluardi contro la distruzione” (xiii), operazioni culturali su larga scala che vogliono, più o meno apertamente, parlare al presente in cui si inseriscono. La scintilla primaria di tutto è però una passione personale, bruciante, che spinge un uomo che non è uno studioso né un dantista, ad avvicinarsi alla Firenze del Trecento e a seguire da vicino le orme del Poeta giovinetto. 
Da ragazzo da adolescente, da giovane, da uomo, lessi i versi di Dante: mi rimasero addosso come il caldo del cappotto d'inverno.
La vita mi distrasse col suo volgare, la politica, il giornaliero pettegolezzo, ma sempre ritornarono i suoi versi, sempre capitò il giorno – per quella logica misteriosa che fa eterno il mondo – che riebbi in mano un canto dell'Inferno, del Purgatorio, del Paradiso. Era il giornale che mi rapiva, le sillabe che mi commuovevano. Dante era storico, poeta, astronomo, enciclopedista, era l'incanto. Felicità trovarsi in confidenza con lui, benedizione essere nati in Italia, aver avuto una madre che ci ha insegnato la lingua del sì. […] Tra me e me anche rammemoravo i versi di Dante: mentre camminavo per le strade, mentre a letto, chiusa la luce, attendevo il sonno; e sempre più presi a fantasticare su quel tempo. Mi domandavo come pensavano, da che passioni erano mossi, quale consideravano il bene e quale l'opposto, se più amavano la fazione oppure il Comune, quanto pesava la vendetta, che gusto provavano a uccidere con la spada, immergerla, bagnarla nel sangue del nemico.
Mi incuriosivano le abitudini spicciole: come erano davvero i vestiti, chi aveva i vetri alle finestre invece di pelli di capra sbiadite dall'olio di lino; come d'inverno si riscaldavano.
Essi ignoravano l'igiene; guardavano le stelle, il firmamento. Di notte il cielo era il lume delle loro strade. (pp. 167, 169)
I brevi capitoli, sempre anticipati da una sintetica rubrica dei contenuti, mirano non soltanto alla ricostruzione di una parabola biografica, ma a render conto della complessità di un’epoca, coinvolta in radicali mutamenti e travagliata da profondi conflitti, di cui Tobino cerca di render conto grazie a un grande lavoro di ricerca personale. Sulla carta a Dante vengono quindi accostati i grandi personaggi del suo tempo, a giocare il ruolo di comprimari o antagonisti, personali o collettivi: lo spregiudicato Corso Donati, il rivoluzionario Giano della Bella, il Gran Cane veronese ritratto tra ambizioni politiche e mecenatismo, ma forse più di tutti Bonifacio VIII, grande rivale di Dante e simbolo delle contraddizioni del periodo.
Ma Bonifacio VIII? Lui è il Papa e manda in esilio Dante Alighieri, il nostro poeta. Accordandosi con Carlo di Valois, con i Neri, condanna Dante a non vedere mai più Firenze, mai più il suo bel San Giovanni. Gli era capitato di avere Dante davanti a sé, la fortuna, la gloria di parlargli, riceverne consiglio, e non avverte, non indovina, non sospetta, non usa neppure prudenza. Solo avvinto dalla superbia e dalla ingordigia, solo lieto della sua astuzia.
Aveva davanti il viso di Dante, che pur doveva trasparire una luce, il riverbero di una fiamma, e si limita a fare delle promesse che già sa di non mantenere.
L'unica scusa che potrebbe accampare – quanto da poco – è l'imprevedibile. Un grande poeta è un cataclisma che non si può prevedere, un fenomeno inarrestabile che dura nei secoli e, più trascorre il tempo, con maggiore dolcezza convince e conquista sia i cuori semplici che le anime elette. Possiede la serena folgore della giustizia, illumina la verità, svela i peccati, le vergogne. E, certamente, mentre è in vita, difficile scoprire che lo si ha davanti, arduo indovinarlo, prevedere quel cataclisma. (pp. 50-51)
Al centro di tutto c’è una sentita, coinvolta riflessione linguistica: è il volgare a rendere grande Dante, e al tempo stesso il principale veicolo di espressione della sua grandezza, in qualunque ambito si sia essa dispiegata: negli incarichi all’interno del Comune, nelle ambascerie politiche durante gli anni dell’esilio, o nella scrittura della sua opera maggiore.
Sembrò in quei giorni che la vita di Dante fosse una limpida gemma, iridata dal bel futuro; e la sua vita segreta era ancora più intensa. Continuava ad ascoltare dalle comuni lingue fiorentine le sanguinose storie dei guelfi e ghibellini, e poi si immaginava le scene, si ripeteva i dialoghi, e ogni volta una verità lo folgorava, lo travolgeva la struggente verità: il volgare, la lingua del popolo, con il volgare si poteva esprimere tutto, più musica del latino, fresco come il paesaggio della Toscana, robusto come i quadri di Giotto, di feroce tenerezza come le membra del Cristo di Cimabue. Non con il latino avrebbe detto ma con il volgare, con la lingua di tutti, con quella stessa che egli, in quella sua appartata cameretta, si immaginava ed esprimeva. […] Così delirando di propositi, di decisioni, di giuramenti, Dante si affacciò d'improvviso all'età adulta. Tutto nel suo animo era già apparso, si trattava di fare. Aveva intuito la fatica, il sudore, quanta magrezza per il corpo. Aveva anche calcolato e giudicato che non ci sarebbero stati ostacoli più forti di quel vulcano che sibilava tra le trame del petto; avrebbe inventato la lingua italiana. (p. 8-9)
La lingua diventa la via attraverso cui Dante è riconosciuto, i suoi versi riecheggiano nelle bettole o tra le vie, mormorati dalla gente comune. Diventa, soprattutto, il principale strumento della sua coerenza, della lotta, sempre condotta, in nome di una superiore giustizia, per cui è disposto anche a pagare il prezzo più caro, la rinuncia all’amata Firenze e l’esilio definitivo. Tra gli esiti, il dolore rimasticato negli anni, la nostalgia alimentata fino all’ultimo giorno, ma anche una risoluta, definitiva affermazione di sé.
Non si può distruggere per una momentanea debolezza tutta una vita, annullare la logica di ogni atto, estinguere la passione per la giustizia, non si può per una commozione paterna gettare alle ortiche la gloria di un poeta, l'intimo della fantasia, l'essenza di un'anima.
Dante rispose chiaro di no. […] “In queste condizioni in che vi trovate, miei concittadini, vorreste che io battessi alla vostra porta come un nemico, sottostassi al buio di una prigione prima di presentarmi davanti al battistero. Con la candela accesa Dante Alighieri si dovrebbe inginocchiare in San Giovanni non per essere incoronato poeta ma con la faccia del ladro e del traditore. Non accadrà, signori fiorentini. E state pur certi che continuerò a meditare, a comporre le mie opere, e sarò anche riverito.” (p. 141)


a cura di Carolina Pernigo
 

Edizioni di riferimento
Mario Tobino, Biondo era e bello, introduzione di Giacomo Magrini, cronologia, bibliografia e nota al testo di Paola Italia, Milano, Mondadori, 2016.