in

«Un eterno pellegrino diretto a un santuario che forse non esiste»: l'inesorabilità della vocazione artistica ne "La luna e sei soldi" di W. Somerset Maugham

- -

 



La luna e sei soldi
di W. Somerset Maugham
Adelphi, 2002

pp. 240 
€ 12,00
 
Titolo originale: The Moon and Sixpence
Traduzione di Franco Salvatorelli
 

È un personaggio affascinante, strano e complesso quello di Charles Strickland. Intorno a lui sono nate leggende alimentate dalla sua vita sregolata e l’alone di torbido che circonda la sua storia non fa che accrescere l’attrazione per la sua opera. Non è un caso dunque che il pittore maledetto, considerato rozzo e incomprensibile ai più, sia stato rivalutato come genio solo dopo la sua morte, quando si è scatenata una corsa forsennata all’accaparramento dei suoi dipinti, venduti a peso d’oro nei circuiti più elitari. Il narratore de La luna e sei soldi, secondo una pratica usuale per Maugham (si vedano molti dei racconti di Una donna di mondo, recensito qui), è uno scrittore di mezza età. Travolto dalle contingenze storiche, così come dall’avvento di nuove generazioni che celebrano idoli e valori a lui sconosciuti, ormai parzialmente disilluso, ma mai scevro di ironia, lui scrive per diletto; osserva quindi la vita di Strickland, da lui stesso intimamente conosciuto, con uno sguardo che si colloca al di là della moraleallo scrittore interessa più conoscere che giudicare», p. 156): ne vuole ricostruire la parabola biografica non tanto per trarne un messaggio universale, ma per comprendere le ragioni più profonde delle cose, sviscerare quel mistero che è l’animo umano, in particolare quello dell’artista.
Un altro dono, più grande, l’artista ci elargisce: sé stesso. Indagare il suo segreto ha un po’ il fascino di un racconto poliziesco. È un enigma che, come l’universo, ha il pregio di non avere risposta. (p. 10)
La vita di Charles Strickland, liberamente ispirata a quella di Paul Gauguin, permette a Maugham di esplorare in profondità il concetto di vocazione all’arte, che nel caso del protagonista dell’opera assume una sfumatura quasi ossessiva, l’aura inquietante della possessione demoniaca, tanto in suo nome egli è disposto a sacrificare tutto ciò che ha. Charles Strickland è infatti un agente finanziario nella Londra benestante e borghese, padre e marito, un uomo «semplice, onesto e grigio; da ammirare per le sue ottime qualità e di cui evitare la compagnia. Una nullità» (p. 30). Un giorno quest’uomo, con un gesto radicale incompreso e incomprensibile ai più, decide di lasciare tutto ciò che ha per vivere una vita miserabile a Parigi. A muoverlo non è, come molti pensano, un qualche vizio segreto, o un’amante più giovane. Non è neppure un colpo di testa. Si tratta, semplicemente, di una necessità, un’urgenza, tale da rimettere in discussione ogni certezza, ogni stabilità, ogni dato acquisito:
“Le pare che sarà valsa la pena di rinunciare a tutto?” […]
“Parla da stupido” disse. […] “Le ripeto che devo dipingere. Non posso farci niente. Quando uno cade in acqua non importa come nuota, se bene o male: o nuota o annega”.
Nella sua voce c’era una vera passione, e mio malgrado ne fui impressionato. Mi parve di percepire come una forza impetuosa che lottasse dentro di lui; avevo la sensazione di un qualcosa di poderoso, soverchiante, che lo tenesse avvinto, in certo modo, contro la sua volontà. Non capivo. Sembrava davvero posseduto da un demone. (p. 57)
E il narratore, a sua volta spinto a tratti da un’inquietudine sotterranea che lo spinge a rifiutare un’esistenza composta, ordinaria, pur considerando il suo agire insensibile e deplorevole, non può non esserne sottilmente attratto, vederlo come un atto di rottura forse invidiato in qualche modo inconfessabile. Strickland non si cura di cosa pensa la gente, non si vergogna delle sue scelte perché, semplicemente, non le considera tali, non ritenendo che esista alcuna alternativa. Con «la linearità del fanatico e la spietata durezza dell’apostolo» (p. 62) scivola attraverso ogni convenzione sociale, ogni regola, godendo di una «libertà oltraggiosa» (p. 63), che suscita uno scandalo, di cui peraltro lui non si occupa. Così, da Parigi a Marsiglia, da Marsiglia a Tahiti, Strickland procede con l’inesorabilità di chi sa di stare percorrendo l’unica via possibile, all’inseguimento di un sogno di bellezza, di verità, che è tutto dentro gli occhi e che cerca continuamente una risonanza con ciò che è fuori. Ciò viene colto benissimo da Dirk Stroeve, pittore mediocre ma critico intelligente e intuitivo. Tanto gli altri reputano grotteschi i quadri di Strickland, tanto lui in essi intravede il tocco del genio, e lo difende a costo di sacrificare ciò che per lui è più importante:
Perché pensare che la bellezza, la cosa più preziosa al mondo, se ne stia come un sasso sulla spiaggia, a farsi raccogliere per ozio dal primo sbadato passante? La bellezza è qualcosa di strano e meraviglioso che l’artista plasma dal caos del mondo nel tormento della sua anima. E quando l’ha creata, non a tutti è dato comprenderla. Per riconoscerla devi ripetere l’avventura dell’artista. È una melodia quella che lui ti canta, e per riudirla in cuor tuo ti occorre esperienza, sensibilità e immaginazione. (p. 83)
L’esperienza della bellezza è qualcosa che trasforma profondamente chi la fa, ecco perché Maugham si scaglia contro l’abuso banalizzante del termine, che lo svuota del suo significato più profondo. Per lui, che parla schiettamente attraverso il narratore, la bellezza è ciò che dà senso all’esistere, ciò di fronte a cui non si è più gli stessi. «Avevo una strana impressione, come di essere trasportato d’improvviso in un mondo dai valori mutati» (p. 150), commenta Stroeve a proposito di un quadro di Strickland. La bellezza ha a che fare con la spiritualità e l’eterno di cui il soggetto può, attraverso l’opera d’arte, avere una minima intuizione.
La luna e sei soldi è un’opera del suo tempo (la prima edizione risale al 1919) ma, come spesso i classici riescono a fare, sembra parlare anche al nostro. La grandezza di Maugham sta nello sguardo acuto sul reale, sulle dinamiche sociali e sui moti interiori dell’animo umano, restituiti grazie a una straordinaria incisività linguistica: Maugham conosce le parole e le mette tutte al servizio dell’osservazione attenta che il suo narratore esercita su ciò che lo circonda. Ecco perché ciò che viene detto è spesso un compendio di riflessioni ben più profonde, che in nessun momento possono sfuggire al lettore attento («la sua vita era una tragedia scritta nei modi di una farsa plateale», p. 76, dice di Stroeve, forse il personaggio più commovente, e meglio caratterizzato del volume).
Se la seconda parte del volume appare narrativamente più slegata della prima, anche per via di alcuni necessari salti cronologici, è però lì che l’autore dispiega tutta la sua facondia nel descrivere il paradisiaco ambiente thaitiano e il modo in cui, grazie ad esso, nelle opere di Strickland si dispiegano forza e genio:
Dal pavimento al soffitto le pareti erano coperte da una strana e complicata composizione. Era una meraviglia indescrivibile, misteriosa, che gli toglieva il fiato e gli dava una sensazione che non era in grado di comprendere o analizzare, un senso di timore reverenziale e insieme di gioia quale potrebbe provare un uomo che assista agli inizi di un mondo. Era una visione tremenda, sensuale, appassionata; eppure c’era in essa anche qualcosa di orrendo, qualcosa che gli faceva paura. Era l’opera di un uomo che aveva scavato nelle profondità nascoste della natura e aveva scoperto segreti stupendi e spaventosi a un tempo. Era l’opera di un uomo che conosceva cose che era sacrilegio per gli uomini conoscere. Aveva qualcosa di primordiale e di terribile. Non era umana. (pp. 228-229).
È su quest’isola fuori dal normale scorrere della storia che l’uomo può realizzare l’opera della sua vita, creare quel compendio di senso che era andato cercando nelle sue peregrinazioni, esprimendolo in pitture che si configuravano per il profano come foreste di simboli inaccessibili: 
Non esitava a semplificare o a distorcere, se ciò gli permetteva di avvicinarsi alla causa ignota che cercava. I dati reali per lui non contavano nulla, perché sotto la massa degli accidenti irrilevanti cercava qualcosa che avesse significato per lui. Era come se avesse acquistato coscienza dell’anima dell’universo e si sentisse costretto ad esprimerla. (p. 167)
L’artista, per Maugham, è colui che riesce a disvelare il senso più profondo, il mistero, nascosto nelle cose quotidiane. Che mostra l’uomo nella sua natura terrena e divina, che permette un riconoscimento viscerale, che sbalordisce e terrorizza. È a questo obiettivo che è consacrata la vita di Charles Strickland, individuo sgradevole, insensibile e poco empatico, ma toccato da qualcosa che la gente comune non può comprendere, ma solo intuire: «era un uomo odioso; ma continuo a pensare che fosse un grand’uomo» (p. 174). Il narratore osserva, in una prospettiva che si muove tra vicinanza e lontananza, l’esistenza di un singolo che, in modi diversi, ponendosi come pietra d’inciampo, interpella quella di tutti. E se qualcuno avesse mai avuto qualche dubbio sul talento di W. Somerset Maugham nell’indagare i soggetti inseriti nel contesto sociale, nel tessuto relazionale del loro tempo, certo lo dissiperà dopo aver ultimato la lettura di questo romanzo. 
 
Carolina Pernigo