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#CriticARTe. Roy Lichtenstein e la Pop Art: immersione negli anni '60 al Castello di Desenzano del Garda

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ROY LICHTENSTEIN.
The Sixties and the history of international Pop art
 
Castello, Desenzano del Garda (Bs) 
29 aprile – 16 luglio 2023
 
Biglietto intero: € 10,00; ridotto € 8,00
 

 
Nato a New York esattamente cento anni fa, Roy Lichtenstein è il protagonista indiscusso della mostra ospitata dal 29 aprile al 16 luglio nel Castello di Desenzano del Garda, che vuole appunto celebrare tale ricorrenza. Il sottotitolo dell’esposizione, “The Sixties and the history of international Pop Art”, rivela però un’apertura verso il contesto che ha circondato la sua produzione, un tentativo di tracciare delle linee che, dagli Stati Uniti, hanno portato la Pop Art, variamente recepita e declinata, fino all’Europa, e anche in Italia.
Benché l’artista sia morto nel 1997, la sua arte è invecchiata bene, o non è invecchiata affatto, come può notare il visitatore appena entra nella cornice suggestiva che ospita l’esposizione. Ce lo spiega il curatore della mostra, Matteo Vanzan, a cui abbiamo chiesto cosa possa dire al presente l’arte di Lichtenstein, in che modo riesca ancora a intercettare valori e controvalori della nostra società.
“Se fosse stata una moda, la Pop Art sarebbe ormai morta da tempo. Gli artisti di quella generazione hanno saputo leggere ed interpretare le necessità di un'arte che voleva superare la stagione informale, lunga oltre 15 anni. Una nuova generazione fresca, dinamica e audace che seppe proporsi in una società fatta di contestazioni sociali, boom economico e nascita di miti e icone che ancora oggi vivono dentro di noi. Lichtenstein era uno di loro e la sua ricerca artistica ha portato alla creazione di immagini la cui potenza espressiva era talmente forte da entrare in un immaginario collettivo che non morirà mai. Ha portato i fumetti nel mondo dell'arte nei Sessanta e oggi, con tutti i film della Marvel tratti dai fumetti, sono più attuali che mai.”
Di formazione classica e partendo dal disegno tradizionale, negli anni ‘60 Lichtenstein imprime una svolta significativa alla sua arte, a cui attribuisce il compito fondamentale di incarnare, diventare espressione tangibile, della società e della cultura di massa dominanti. Il tentativo di parlare un linguaggio popolare viene inizialmente apprezzato solo parzialmente: la critica si divide, tanto che, spiega uno dei pannelli esplicativi, nel 1964 la rivista Life poté pubblicare un articolo su di lui intitolato “Is He the Worst Artist in America?”. Eppure, forse anche in virtù del nostro essere ancora immersi in un contesto in cui il linguaggio della pubblicità e dei media imperversa, le tavole di Lichtenstein continuano a parlarci.
Da un lato l’autore si appropria di immagini della cultura popolare, prime tra tutte quelle celebri del mondo del fumetto, dall’altro fa diventare popolare anche ciò che inizialmente non lo era né voleva esserlo, come l’arte futurista, o quella di Picasso. “Still Life with Picasso” (1973) e “The red horseman” (1975), che si rifà all’omonimo dipinto di Carlo Carrà, mostrano i passi fatti in questa direzione, una volontà di recupero che è anche reinvenzione, sulla base di una precisa concezione di come l’arte dovrebbe essere dopo la stagione drammatica delle guerre mondiali e lo stravolgimento del punto di vista dell’artista sugli uomini e i rapporti che li legano all’interno della comunità.

Nelle opere di Lichtenstein alto e basso continuamente vengono impastati e rimescolati, dissolto è il confine netto che li separa. Un meccanismo utilizzato nei processi di stampa, il punto Ben-Day, viene ripreso, risemantizzato e, non più mero elemento funzionale alla resa dei colori, diventa marchio, firma esclusiva. La pubblicità e il prodotto seriale diventano così da elementi transeunti, destinati al consumo, vere e proprie forme d’arte. Al contempo, con un movimento solo apparentemente opposto, l’arte si fa accessibile; tutto diventa merce, commerciale e commerciabile. La sua stessa opera viene da Lichtenstein continuamente dissacrata, tagliata e riassemblata a creare nuove composizioni, come in “Mural with Blue Brushstroke” (1986), in cui si ritrova una «cacofonia di immagini […] montaggio dei suoi soggetti precedenti».
Le immagini sono spesso iconiche, decontestualizzate, implicano forzosamente lo spettatore che viene chiamato a fare illazioni, a costruire una narrazione intorno alla rappresentazione istantanea. Questo è quello che capita con serigrafie assai note come “Drowning girl” (1989) o “Ohhh… Alright…” (1993), che mostrano donne seducenti, colte in un momento per loro drammatico, impegnate nel tentativo di ridefinirsi indipendentemente dagli uomini che vorrebbero forse controllarle. Nulla è dato sapere di specifico sulla loro condizione, su cosa le ha portate a vivere quell’attimo, a pronunciare quelle parole, solo i sentimenti espressi dalla loro fisionomia possono essere decifrati, e anche in quel caso sempre soggettivamente. In tal senso, Lichtenstein pare quasi un precursore dei social attuali, Instagrammer ante-litteram.
Dopo un primo piano dedicato interamente a Lichtenstein, la seconda parte della mostra vorrebbe allargare la prospettiva, e avrebbe forse bisogno di un più ampio apparato didascalico, per chiarire l’influenza esercitata dalla Pop Art sull’opera degli artisti rappresentati, o viceversa il loro ruolo nella creazione della Pop Art stessa. Nell’attraversare le sale si trovano infatti nomi importanti, come Robert Rauschenberg, Andy Warhol, James Rosenquist, o gli italiani Renato Mambor, Simona Weller, Mario Schifano o Gino Marotta, presenti in mostra con alcune opere emblematiche. Per comprendere meglio i criteri di tale selezione, abbiamo ancora una volta interpellato Vanzan:
“Ritengo che l'arte vada spiegata fino a un certo punto. Se abbiamo trovato giusto spiegare tutte le opere di Lichtenstein, abbiamo anche valutato la necessità di far comprendere come l'opera d'arte abbia al suo interno un messaggio che ognuno di noi è chiamato a interpretare. Arte è pensiero e riflessione individuale, soprattutto in una stagione artistica in cui l'arte era fatta da una grande famiglia di ragazzi poco più che ventenni che erano amici e che si confrontavano nelle principali capitali dell'arte del mondo come Roma, New York e Parigi. Al piano inferiore abbiamo voluto inserire alcuni di loro con delle opere rappresentative che ne raccontassero gli stilemi, più che i significati. Come diceva Mario Schifano, riguardo i suoi Monocromi: «un quadro giallo è un quadro giallo e basta».”
L’esperienza del percorso espositivo, attraverso le sale storiche del Castello, è arricchita da una colonna sonora rockettara ispirata agli anni ‘60 e a Woodstock, di cui viene proiettato anche il celebre video-documentario. Questo crea l’impressione di un’esperienza immersiva, totalizzante e transmediale, nel clima di un’epoca. Come ci spiega ancora Vanzan,
“la musica è emozione immediata, senza filtri e senza necessità di spiegazione alcuna. Soprattutto quella dei Sixties fatta dai grandi del rock come The Who, Jimi Hendrix, Beatles, Rolling Stones, Janis Joplin e molti altri ancora. Woodstock è stata la scelta obbligata per rappresentare un'intera generazione di giovani che lottava per la propria identità allontanandosi definitivamente dai cliché della famiglia patriarcale. Il festival più grande della storia, è stato definito: non il più grande per quantità di pubblico, ma una tre giorni di totale libertà in cui tutto funzionò a meraviglia. Woodstock è stato l'urlo di una generazione nuova, libera, coraggiosa e che non si può non ricordare. Credo che ogni mostra abbia una sua storia da raccontare e questa, che è su Lichtenstein e la Pop Art internazionale, non può essere raccontata senza ascoltare la musica della libertà.”
Raccolta nella struttura e nel numero di opere esposte, selezionate tuttavia tra quelle più note di Roy Lichtenstein, la mostra al Castello di Desenzano può dunque essere un'occasione, per chi sia di passaggio, di fare un'esperienza di questa libertà, facendosi catapultare negli anni '60, là dove l'arte imboccava strade in precedenza mai percorse.  

Carolina Pernigo


Immagini a corredo del pezzo contenute nel Press Kit fornito dall'Ufficio Stampa della mostra