In Italia per presentare il suo ultimo romanzo pubblicato da Adelphi, Michael Bible mi ha concesso un'intervista esclusiva durante il suo soggiorno torinese in occasione del Salone del libro. L'ho raggiunto al suo hotel nel centro di Torino e abbiamo chiacchierato a lungo, seduti all'aperto in quella che credevamo fosse una zona tranquilla dove registrare la nostra conversazione e dove invece abbiamo riso per l'andirivieni rumoroso della vita di appartamenti che affacciano su un cortile di città. Ho trovato un uomo gentile, molto curioso di tutto quello che lo circonda, attento alle persone e alle storie che rappresentano. Perché in fondo a ben guardare Goodbye Hotel, il romanzo appena uscito per Adelphi con la traduzione di Martina Testa, ha il suo centro proprio nell'importanza delle storie, nella scrittura, nelle verità possibili. In quel cortile ho chiacchierato per un'ora con Bible su scrittura, ambiguità, mondo letterario, insegnamento. E ci ha dato anche una piccola anticipazione di quello a cui sta lavorando...
Prima di tutto, la forma. Cos’è Little Lazarus? Un racconto lungo o un romanzo breve? Secondo me è un racconto lungo. Preferisci questa forma o quella lunga?
Sono piuttosto agnostico su questo. Mi piacciono i libri brevi. Non tendo a classificare troppo. Perché poi pensi: “Oh, se è un racconto lungo, deve essere così”, oppure “se è un romanzo, deve seguire quell’altro schema”. Quindi io, in genere, vado avanti e vedo cosa succede. Ma vanno bene entrambi.
È una storia d’amore o una falsa redenzione? Tu cosa pensi?
Ti confesso che non lo so. Stamattina ho fatto un’intervista e pensavo alla storia di Paolo e Francesca nell’Inferno di Dante, hai presente? Sono due amanti che hanno peccato e vengono condannati a inseguirsi all’inferno per sempre, senza mai potersi davvero raggiungere. E in un certo senso mi è sembrato qualcosa di simile: questi due personaggi hanno fatto qualcosa di orribile, l’hanno nascosto, e ora sono condannati a stare sempre sul punto di incontrarsi davvero, ma senza riuscirci. Non so se sia proprio una storia d’amore, ma forse ci va vicino. È una storia sull’amore, sulle sue possibilità, e anche sulla tragedia dell’amore quando non funziona davvero.
Mi piace l’ambiguità della storia. L’ambiguità della narrazione, delle voci che hai scelto, tutte le possibilità che lascia aperte. Il fatto che non si sappia qual è la verità fino alla fine, forse. Come ti è venuta l’idea di raccontarla così?
Sono da sempre affascinato dall’ambiguità e dalla relatività della verità. Come possiamo vedere le cose in modi diversi. C’è il detto “Lui ha detto, lei ha detto, e poi c’è la verità”. E quella verità può cambiare nel tempo. Anche i fatti possono sembrare diversi a seconda della prospettiva. Credo che sia più realistico rappresentare l’ambiguità che non una verità assoluta e definita. Ho voluto cercare di drammatizzare questa cosa. Tutta la letteratura che amo arriva a questa consapevolezza. Shakespeare, per esempio — non che mi stia paragonando — ma nelle sue opere si trovano i vuoti tra ciò che sappiamo, ciò che possiamo sapere e ciò che desideriamo sapere. E il fatto di cercare qualcosa, un senso, e non trovarlo completamente: è questa la condizione umana, costante. Volevo provare a raccontare proprio questo.
Se in questa storia c’è una verità da scoprire, è questa, credo. La verità di chi siamo, non quella di chi fingiamo di essere. Che ne pensi?Goodbye Hotel
di Michael Bible
Adelphi, 2025
Traduzione di Martina Testa
pp. 156
€ 18 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)
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È una cosa bellissima quella che hai detto, ti ringrazio. Sì, credo che sia molto vicino al cuore della questione. C’è una sorta di onestà interna che spesso non siamo pronti ad affrontare. E la possibilità che il cerchio si chiuda solo attraverso l’altro, che possiamo davvero conoscerci solo tramite gli altri. Il viaggio interiore ci porta fino a un certo punto, ma è nell’incontro con un altro che arriva la vera comprensione. È un po’ come scrivere un libro o creare un’opera d’arte: non è completa finché qualcuno non la legge, non la interpreta, non decide cos’è. Io posso fare solo una parte. Poi il resto è nelle mani del lettore.
È davvero importante, alla fine, sapere la verità?
Non lo so. Forse lascio che sia il lettore a deciderlo. Capisco il desiderio di avere una conclusione, ma non so se per me è fondamentale. Ogni giorno costruiamo piccole verità che ci aiutano a vivere. Ma quella Verità, con la V maiuscola, è forse una domanda. A me interessa più il mistero che la soluzione. Quindi sì, forse lascio tutto nelle mani del lettore.
E Harmony? Cosa rappresenta per te, per la tua scrittura, per la storia? E vorrei soffermarmi un attimo anche sui tuoi luoghi reali: sei originario del North Carolina, hai studiato in Mississippi, Tennessee, poi ti sei trasferito a L.A. e ora vivi a New York. Che rapporto hai con i luoghi? E cos’è il Sud per te?
È una cosa interessante. Hai detto che ho vissuto in tanti posti, ed è vero. Sono cresciuto in una piccola città del Sud... molto piccola. E ho sempre sentito un desiderio fortissimo di andarmene. Volevo fuggire. E credo che sia per questo che ho trovato la letteratura, la musica, il cinema. Erano il mio modo per immaginare un altro mondo. Anche se non pensavo davvero di poterci arrivare, volevo vederlo. E poi, ovviamente, una volta andato via dal Sud, non facevo altro che pensarci. Scrivevo solo del Sud. È come se solo con la distanza avessi capito davvero cosa succedeva lì, in profondità. L’ho detto altre volte: mi sento in un esilio autoimposto dal Sud. La mia famiglia vive ancora laggiù, ma nessuno è rimasto nella piccola città dove siamo cresciuti. Eppure ci penso ogni giorno. È come se ci fossero due luoghi: quello reale e quello che ho inventato nella mia mente. E quello che ho inventato mi è molto più chiaro del luogo reale. È un gioco di memoria, tempo e spazio. E mi piace viverci, in un certo senso.
Che tipo di lettore sei? Soprattutto ora che sei anche scrittore.
Credo di leggere molti libri contemporaneamente. Non sono uno di quelli che finisce un libro prima di iniziarne un altro. Leggo molte cose che non sono fiction o non sono considerate “alta letteratura”. Mi piace tantissimo andare nella biblioteca centrale di Manhattan, vicino a dove vivo ora, e prendere libri a caso dagli scaffali. È un’abitudine che ho da anni. Mi piace quel tipo di lettura casuale, trovare testi strani o esoterici. Ma sono anche ossessionato dalla letteratura europea, in particolare centroeuropea, francese, italiana. Certo, ho anche scrittori americani che amo, ma leggo molta letteratura tradotta. È molto importante per me. E poi, in saggistica, leggo di tutto: biografie, storia, migrazioni degli uccelli... qualsiasi cosa mi affascini.
E la traduzione? Che rapporto hai con la traduzione dei tuoi libri? E con i lettori italiani, che sono stati particolarmente toccati dalla tua storia, da Harmony?
Tutto questo è molto strano e sorprendente per me. Non avrei mai immaginato di essere qui a parlare con te. È davvero incredibile, e ne sono grato. Poter venire in Italia per parlare di libri è meraviglioso. E trovo molto confortante incontrare una cultura che ama davvero leggere, come quella italiana. In America non è la stessa cosa. Certo, ci sono lettori, ma sono una nicchia. Qui mi sembra che anche la narrativa “mainstream” dia valore alla letteratura vera, non solo alla narrativa commerciale. In ogni libreria, anche in stazione o all’aeroporto, ci sono libri letterari. In America non è così. Una volta c’erano intere librerie negli aeroporti, ora è rimasta una parete, sempre con gli stessi titoli. È triste. Quindi sì, vedere una cultura letteraria così viva è molto bello.
Cos’è la scrittura per te? E perché François, tra i protagonisti di Goodbye Hotel, ha bisogno di tante versioni della sua stessa storia, perché la verità è così difficile da dire, per lui e per noi?
C’è una vecchia frase di Emily Dickinson — la sto sicuramente citando male — che dice: “Di’ la verità, ma falla obliqua”. François non riesce a entrarci, a trovare il modo giusto per raccontarla. C’è un libro bellissimo, The Things They Carried, di Tim O’Brien (Quanto pesano i fantasmi, Mondadori, 2023), che fu mio insegnante. Era un veterano del Vietnam e diceva: “Se ti dicessi com’era davvero la guerra, non mi crederesti. Quindi devo inventare una storia per farti capire com’era”. È un pensiero potente. Anche dopo aver vissuto qualcosa di estremo, aveva bisogno dell’immaginazione. Per me è lo stesso con François. Ha vissuto qualcosa di profondo, ma non riesce a raccontarlo direttamente. Dentro di lui, la verità è in conflitto con ciò che vorrebbe fosse vero. Ecco, anche per lui è così e deve scriverla la verità. È difficile, ma deve farlo. Deve solo scriverla, dire la verità.
E tu come scrivi?
Ho provato tanti modi diversi. Ma ultimamente ho scoperto che il modo migliore per me è... non scrivere!. Prima ero molto preso dall’idea di dover scrivere sempre. In America viviamo in una società della produttività. Forse anche in Italia succede. Ma ho capito che non è sempre il modo migliore per lavorare. Ora prendo tempo per pensare davvero a ciò che voglio scrivere. Vengo dal Sud, dove esiste una fortissima tradizione orale. Alcuni dei migliori narratori che ho conosciuto non sapevano nemmeno leggere bene, ma raccontavano storie meravigliose. Così ora racconto le storie a voce, agli amici. Se vedo che si annoiano o guardano il telefono, capisco che non funziona. Se invece si incuriosiscono, allora la storia vale. E poi la scrivo. Dico sempre ai miei studenti: scrivere e digitare sono due cose diverse. Scrivere avviene nella mente, nel cuore, con la bocca. Digitare è solo l’ultimo passaggio.
Little Lazarus: perché la tartaruga? È affascinante. Ma perché proprio una tartaruga tra i protagonisti della storia?
Non sono cresciuto amando gli animali. Mia madre racconta sempre che, da piccolo, in gita in una fattoria, rifiutai di scendere dal pullman perché gli animali “puzzavano”. Mia moglie è l’opposto: quando era bambina, per la giornata delle professioni si vestì da addetta a un canile. Quando ha perso il suo cane, sapevo che ne avrebbe voluto un altro. E quando è arrivato il cucciolo, mi ha cambiato la vita. Sono diventato una “persona da cani”. Ho iniziato a notare quanto questi animali provino emozioni complesse. Pensando alla storia, a questa ragazza scomparsa, mi chiedevo cosa avrebbe provato il suo animale. Ma i cani non vivono a lungo. E se fosse stata una tartaruga? Vivono a lungo. Ci sono storie vere di tartarughe che sopravvivono per generazioni. È un modo per pensare al tempo, e dare loro una vita interiore. Mi ha affascinato l’idea.
Cosa stai scrivendo ora?
Ho appena finito un’altra sceneggiatura — sono anche sceneggiatore. Un film è uscito nel 2023 e ora abbiamo completato un nuovo copione. E ho finito una bozza di un romanzo. Non è ancora del tutto pronto, ma posso dirti una piccola cosa: è la storia di un uomo che crede di essere la reincarnazione del fratello sordomuto di Ivan il Terribile. Ma si svolge comunque a Harmony. Vedremo. È ancora presto.
Scrivere un romanzo è diverso dallo scrivere una sceneggiatura?
Sì, molto. Una sceneggiatura la scrivo sempre con qualcun altro, perché è arte drammatica. Devi sentire le battute. È molto divertente, ma anche molto collaborativo. La narrativa, invece, è personale. Scrivi da solo. Non sai mai se ciò che scrivi funziona davvero.
È più difficile?
In modo diverso, sì. Ma l’ho sempre fatto, fin da bambino.
E insegnare scrittura?
Mi piace molto insegnare. Ho insegnato all’università per alcuni anni, ma il sistema americano è molto diverso. Lì tutto è professionalizzato. Non si tratta solo di scrivere un bel libro, ma di trovare un agente, farsi pubblicare. È tutto orientato al lavoro. Ma quei lavori, ormai, quasi non esistono più. Ora insegno da solo, con corsi miei. Chiedo solo una pagina di scrittura. Se mi piace, sei dentro. Ho studenti di ogni tipo: operai, laureati, scienziati, giovani e meno giovani. È come un club. E lo adoro. È una cosa preziosa per me.
Intervista esclusiva a cura di Debora Lambruschini.
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