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Una terza vita fuori dal lager: le difficoltà del testimone in "Signora Auschwitz" di Edith Bruck

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Signora Auschwitz. Il dono della parola
di Edith Bruck
La nave di Teseo, 2023

pp. 171
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
 

Forse definirsi possono solo coloro che hanno i propri vivi e i propri morti nello stesso luogo.
È il corpo il primo a tradire: la nausea, i crampi, un continuo contrarsi delle viscere non riconducibile ad alcuna causa organica, a segnalare forse un rifiuto, un eccesso da stornare. Edith Bruck, dopo molti anni passati a testimoniare, a obbedire a una promessa fatta ai morti, avverte il peso, interiore ed esteriore, di questo racconto. Le pesa “andare in giro come una rappresentante di Auschwitz, l’archetipo di Auschwitz” (p. 46), Auschwitz è il mostro che la abita, che la divora dall’interno. Quando una ragazza, durante un intervento, la chiama “Signora Auschwitz”, negandole ancora una volta il nome come avveniva nei campi, il senso di soffocamento, di prigionia, diventa dominante, incontrollabile. Perché insieme ad Auschwitz la abita il male assoluto, “il contenitore, il parente più prossimo, padre e madre di ogni nefandezza umana” (p. 25). Per tanto tempo Edith crede che le testimonianze possano esorcizzarlo, che ogni libro permetta di buttar fuori “un pezzo del figlio-mostro concepito ad Auschwitz”, ma si rende ben presto conto che non è così:
Chi ha Auschwitz come inquilino devastatore dentro di sé, scrivendone e parlandone non lo partorirà mai, anzi lo alimenta. (p. 25)
Soprattutto se il pubblico è sempre più spesso costituito da ragazzi distratti, poco interessati, o coinvolti il tempo della testimonianza e poi subito risucchiati dalla loro vita frenetica, quasi sempre inconsapevole. Se si attenua fin quasi a svanire l’impressione che i giovani possano imparare a riconoscere i segnali del pericolo, a scongiurare il ripetersi della tragedia.
Quell’indifferenza muta, come altre volte creava un vero e proprio muro tra me e loro. Un muro che dovevo demolire per smuoverli con qualcosa che potevano sentire, capire. (p. 129)
Quando ci sono, le domande sono nel migliore dei casi ingenue, altrimenti invasive, e comunque sempre articolate intorno al tema concentrazionario. Di Edith, la persona Edith, prima e dopo il lager, rischia di non restare nulla. Poco importa che, nella lista dei suoi appunti per gli interventi, solo le prime quattro voci riguardino gli anni fino al ritorno a casa, e i successivi aprano invece a una riflessione, altrettanto importante, sui lasciti della Shoah nel mondo, sulle nuove discriminazioni, le nuove guerre, di cui però pochi vogliono sentire parlare.
In altri casi, il bisogno di raccontare ciò che è stato si scontra con quello degli astanti di avere risposte consolatorie, rassicuranti, nette. I temi toccati sono sempre gli stessi: il perdono, la fede, la nazione, e per nessuno di essi Bruck ha una verità da comunicare, neanche la propria:
Potevo mai perdonare per mia madre bruciata? Credere senza alcun dubbio? Sentirmi di appartenere al paese di cui ero figliastra [l’Italia]. E che nostalgia potevo mai avere per un paese che nella mia lingua natia mi aveva insultato, offeso, cacciato di casa e consegnata agli assassini? Forse ci sono, ci devono essere delle cose per cui non si hanno risposte, né si possono inventare, anche se premono più di ogni altra sia a noi che a chi ci interroga affamato di certezze. (p. 109-110)
Non aiuta la testimone nemmeno il sentirsi una traditrice di fronte al proprio bisogno d’aria, al desiderio di vivere, una “terza età e terza esistenza fuori da Auschwitz” (p. 38).
Questo piccolo volume, che riesce in una nuova edizione per La Nave di Teseo (la prima, per Marsilio, è del 1999), è molto diverso dalle altre opere memoriali di Edith Bruck: incentrato sul presente, è una disamina dolorosa delle sofferenze di chi, sopravvissuto, non è però ancora libero. Bruck mostra un lato poco esplorato della vita del superstite: quello connesso alla difficoltà del testimoniare, alla lacerazione dell’individuo strattonato tra senso del dovere e senso di colpa, mai davvero pienamente se stesso.
La sofferenza maggiore, l’apice della crisi, deriva però dalla consapevolezza, progressivamente raggiunta, che come non è testimoniando che si può abortire il mostro-Auschwitz, così non è non facendolo che si possono recuperare salute e serenità. Serve anzi, all’autrice, un incontro con una terapista, donna pragmatica e onesta, per accettare una volta per tutte che il passato non può essere rimosso in quanto parte imprescindibile del sé presente.
Quasi per farsi forza, per rinnovare una motivazione che diventa flebile, incerta, nel breve spazio del volume Bruck riporta molte lettere di persone comuni, che dichiarano i diversi modi in cui le sue parole le hanno toccate. I testi vengono riproposti nella loro nudità e nascono sempre da un’urgenza, provata da chi scrive, di condividere il proprio sentire più intimo con colei che l’ha smosso. Sono queste parole, queste persone, a diventare ragione stessa del testimoniare, a fornire l’arma per combattere la tentazione strisciante della resa. Sono infatti loro, “luci immanenti” (p. 169) nell’oscurità, loro, che potremmo e dovremmo essere noi, a raccogliere la testimonianza, darle sempre nuovo senso e asilo.
 
 
Carolina Pernigo