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La scrittura come sortilegio ancestrale: "Voladoras" di Mónica Ojeda

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Voladoras
di Mónica Ojeda
Alessandro Polidoro editore, 2023

Traduzione di Massimiliano Bonatto

pp.130
€15 (cartaceo)
€8,99 (ebook)


Nascita, morte, sangue, dolore, miti ancestrali e cordigliera delle Ande: questi gli ingredienti fondamentali della scrittura di Mónica Ojeda nel suo ultimo libro, Voladoras, uscito nella collana “i selvaggi” di Alessandro Polidoro Editore con la traduzione di Massimiliano Bonatto. 

Sono, dicevamo, gli ingredienti base della sua scrittura ma anche dell’esistenza umana, spinti dall’autrice alle loro estreme declinazioni, esplorati in antri oscuri che non è facile nominare, men che mai in letteratura. Voladoras, già inserito da "El Pais" nei migliori libri del 2020, unisce otto racconti che alternano ambientazioni di natura irrequieta a spazi chiusi, cittadini e claustrofobici. In tutti i racconti la vicenda raccontata è chiara solo fino a un certo punto, oltre il quale si perde nel linguaggio che si sforma, nella voce narrante allucinata, impossibile da seguire lucidamente. L’unica via è abbandonarsi al flusso: 
Repulsione e attrazione: riconosceva l’estraneo dentro di lei crescere come un ventre gonfio di vipere. […] sentiva una forza che la spingeva a sfumare i bordi dello spazio con la loro danza festiva e delirante. Casa sua le sembrò sempre più simile alla buccia di un mandarino, al guscio di una tartaruga, a una noce. (pp. 36-37) 
Due sorelle che vivono il dolore attraverso la musica che producono, una testa che rotola nel giardino del vicino, una bambina che vede creature alate invadere la sua casa di notte, un uomo che si vuole credere sciamano per riportare la figlia. Ojeda sceglie tematiche forti – il femminicidio, l’abuso sui bambini, il sadismo, l’aborto, il suicidio – e le innesta sul suo “gotico andino”: una letteratura che esplora violenza, orrore e paura nello scenario della cordigliera delle Ande, con tutte le sue implicazioni non soltanto geografiche, ma anche folkloriche e di immaginario. Così per esempio in alcuni racconti vengono ripresi miti tradizionali ecuadoriani e sudamericani, come quello del “suicidio del condor” nel racconto Soroche, che si getta a strapiombo da una rupe quando sente di esser diventato inutile, o quello delle Voladoras nell’omonimo racconto, «nonne, madri e figlie smarrite» che di notte salgono sul tetto e si spalmano del miele sotto le ascelle prima di volare sopra la città. 

Alcuni nuclei tematici ritornano in tutti i racconti: è il caso del dolore fisico associato al suono – grida o musica che sia – e della corporeità nelle sue forme più grottesche. Ci sono sangue, ossa e denti, ci sono corpi sformati, corpi decomposti e corpi espulsi: eppure la causa della sofferenza non è mai chiamata col suo nome, ma espressa attraverso la sua manifestazione più materica. Così l’aborto praticato su tavolacci di legno in montagna si intuisce solo attraverso i «coaguli» di sangue che ossessionano la giovane osservatrice, o il lancio nel vuoto di una donna è descritto solo attraverso la sua corsa. 
Era come un parto, ma al contrario, perché invece di qualcosa di vivo usciva qualcosa di morto. «Anche la morte nasce» diceva nonna mentre io raccoglievo i coaguli come fossero bimbi piccini. (p.21) 
È come se un limite all’orrore ci fosse, e stesse proprio nel nominarlo: esplorarlo, questo sì, esaurirlo nell’osservazione, ma dargli un nome nel linguaggio umano non è possibile. Vorrebbe dire sottrarlo alla parte irrazionale dell’animo cui appartiene e dandogli un nome renderlo più logico e meno pauroso.  Nei rarissimi casi in cui invece alla violenza viene dato un nome, come nel racconto La testa che vola in cui si parla esplicitamente di femminicidio, è l'opinione pubblica a dire quel nome ad alta voce, a innalzare i forconi contro l'omicida. Tuttavia, non c'è solidarietà dell'autrice verso questo gesto, giudicato invece come morboso: «C'era qualcosa di lugubre e sporco in quell'interesse diffuso che si crogiolava nel dolore, nella fame per i dettagli più sordidi [...] non per indignazione ma per curiosità».

Ojeda non vuole esorcizzare il Male, ma scavarlo in profondità: così i racconti non hanno mai un lieto fine, eppure si chiudono quasi sempre su note di pacificazione, in cui i protagonisti trovano il loro angolo di tranquillità nella sofferenza. Anche la mise en page è interessante e funzionale: alcune frasi risultano dislocate, spostate in punti della pagina in cui non dovrebbero stare. L’effetto ottico che ne risulta è quello di una un prosimetro in cui la parte di delirio è affidata alla poesia abbozzata. 
Mónica Ojeda, già autrice di Mandíbula e Nefando, inclusa dalla rivista "Granta" tra gli scrittori under 35 più promettenti, è una voce insolita e coraggiosa, che non ha paura di spingere la letteratura fino all’estremo, di usare la scrittura per dire anche l’indicibile: 
Questa scrittura è un sortilegio intessuto nelle profondità della terra. Una sfida lanciata allo stomaco del mio dolore. (p. 104)

Michela La Grotteria