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«Aveva vent’anni e scoprì di possedere ogni abilità e grazia tranne quella di sapersi guadagnare da vivere»: "La fattoria delle Magre Consolazioni", la satira profondamente inglese di Stella Gibbons

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La fattoria delle Magre Consolazioni
di Stella Gibbons
Astoria, 2010

Traduzione di Bruna Mora

pp. 287
€ 17 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)


Se dopo quattro edizioni del mio amatissimo gruppo di lettura avessi avuto ancora dubbi su quanto arricchente e utile sia il confronto-dibattito letterario, con la lettura del mese di marzo mi sarei convinta definitivamente. E, badate bene, non perché il libro sia stato accolto da unanime consenso, non è quello il punto. Ma proprio perché nel confronto ci sono state fornite le chiavi di accesso a un testo che altrimenti avremmo solo scalpito in superficie, probabilmente frainteso, quasi certamente poco apprezzato. Faccio questa premessa personale perché in questo senso il lavoro con il gruppo di lettura, il dibattito che si crea, si avvicina molto a mio avviso a uno degli obiettivi del fare critica letteraria, ossia stabilire un dialogo tra libro e lettori e capire se e come un certo testo si inserisce nel dibattito letterario contemporaneo.

Qual è dunque questo titolo misterioso? Un romanzo pubblicato per la prima volta nel 1932 da un’autrice inglese, diventato presto un best seller in patria da cui venne tratto un celebre sceneggiato per la BBC e decenni dopo un film con attori del calibro di Ian McKellen e Rufus Sewell; un romanzo che nel 2010 approdò anche nelle librerie italiane grazie all’epoca neonata casa editrice Astoria, nella traduzione di Bruna Mora. Si tratta de La fattoria delle Magre Consolazioni, di Stella Gibbons, giornalista e scrittrice inglese (1902-1989), tuttora disponibile nel catalogo della casa editrice milanese, che fin dalle origini guardava con particolare interesse a una certa letteratura femminile fondata su ironia e leggerezza ma non per questo priva di spessore. La fattoria delle magre consolazioni è un romanzo profondamente inglese e, credo sia necessario considerarlo fin da subito, qualcosa di questa storia ci risulterà inaccessibile: non tutti i rimandi, gli echi popolari e letterari, lo humor e la satira che lo caratterizza saranno pienamente compresi a noi lettori da questa parte della Manica, per quanto l’accurata traduzione tenti il più possibile di trasporre nella nostra lingua il wit e la sagacia della voce di Gibbons. E, altro dettaglio dato dall’esperienza di lettura condivisa, l’etichetta che fin dalla sua apparizione lo accompagna, di romanzo divertentissimo, può a mio avviso essere un po’ fuorviante. A dispetto di alcuni pareri letti, non penso affatto quello di Gibbons sia un romanzo che scateni la risata a voce alta e proprio la chiave di questa comicità è secondo me il fraintendimento maggiore.

Quello che fa La fattoria delle magre consolazioni è una cosa specifica, di cui la letteratura inglese ha lunga tradizione: satira. È questa appunto la chiave di accesso al romanzo, in base alla quale comprenderne tutte le implicazioni, i rimandi e le citazioni, il senso proprio. È satira prima di tutto del dualismo mondo rurale / urbano: Flora, la protagonista del romanzo, è una donna – non proprio giovanissima per gli standard dell’epoca – rimasta orfana e in possesso di pochi mezzi, priva di particolari talenti – o almeno di talenti che potrebbero esserle utili a trovarsi un mestiere – ma anche di intenzioni professionali; cresciuta in città, dopo un certo periodo di riflessione ospite a casa di un’amica, decide di prendere in mano la propria vita. Trovandosi un lavoro per mantenersi e quindi la propria strada nel vasto mondo? No di certo! Dopotutto
L’istruzione impartita dai genitori a Flora Poste era stata costosa, di tipo sportivo e protratta nel tempo, e quando essi morirono a poche settimane l’uno dall’altra durante l’epidemia annuale d’influenza, meglio nota come Spagnola, Flora aveva vent’anni e scoprì di possedere ogni abilità e grazia tranne quella di sapersi guadagnare da vivere. (incipit, p. 5)
La soluzione più saggia per Flora è quella di andare a vivere presso qualche parente, naturalmente con una sistemazione che la soddisfi. Dopo aver scritto diverse lettere e scartato tutte le proposte, decide di accogliere il diciamo così invito di lontani parenti del padre che vivono in una fattoria del Sussex, la fattoria delle Magre Consolazioni appunto.
Così doveva essersi sentito Colombo, rifletté Flora, quando il povero indigeno aveva fissato con sguardo solenne e risoluto il volto del grande navigatore. Per la prima volta un Desoladder vedeva un essere civilizzato. (p. 55)
Il mondo urbano incarnato da Flora incontra l’ambiente rurale dei Desoladder, un dualismo che è vero e proprio topos letterario ed esperienza reale assai frequente nel Regno Unito, che Gibbons maneggia in modo particolare, usando come si diceva il mezzo della satira e dell’ironia, in una narrazione che comunque non è mai come ce la si aspetterebbe. Se l’arrivo di Flora dalla città alla nuova vita in campagna ce lo saremmo figurato in una narrazione che mettesse in risalto il netto contrasto tra questi due mondi, in realtà vedremo invece la donna prendere piuttosto di buon grado la differenza tra la vita cui era abituata e la sua nuova sistemazione. E la ragione è che Flora è ben decisa a cambiare ogni cosa. Come un conquistatore – ma sicuramente più arguta e simpatica – ha ben chiaro il suo obiettivo, fin da principio:
Quando avrò trovato un parente desideroso di prendermi con sé, lo prenderò per mano e ne trasformerò il carattere e il modo di vivere secondo i miei gusti. Poi, quando mi farà piacere, mi sposerò. (p. 12)
Un tornado che investe ogni cosa e persona, modifica gli equilibri – o per meglio dire gli squilibri – esistenti e rivoluziona la vita alla fattoria. E qui, subito, scatta un altro topos letterario e ulteriore oggetto di satira: c’è una “maledizione” che aleggia sulla fattoria e su tutti loro, un oscuro segreto del passato (in realtà più di uno) usato dalla matriarca, la nonna, per tenere la famiglia sotto controllo.
Ecco allora come stavano le cose. Mrs Desoladder era la maledizione delle Magre Consolazioni. Mrs Desoladder era il Tema della Nonna Dominante che si poteva trovare in tutti i romanzi tipici della vita agreste (e talvolta anche nei romanzi di vita cittadina. (p. 64)
Qualcosa che ha visto da bambina, nella legnaia, l’ha segnata indelebilmente e con quella visione terribile condiziona la vita di tutti loro, legando per sempre i Desoladder alla fattoria, a lei. Prigionieri della volontà dell’anziana, dei suoi umori, dei suoi “attacchi” di follia, ognuno di loro vive la vita alla fattoria senza nemmeno immaginare di andarsene, perché non è possibile.
Ci sono sempre stati Desoladder alle Magre Consolazioni. Per tutti noi è impossibile sognare di andarsene di qui. Ci sono delle ragioni perché non lo possiamo fare. Mrs Desoladder, lei è decisa a farci restare qui. Questa è la sua vita, questa è la vita nelle sue vene. (p. 63)
È chiaro che per Flora tutto ciò sia quantomeno assurdo e liberare ognuno di loro – sì, anche la nonna – manovrandone la vita e modellandola a suo piacimento diventa una vera e propria missione. Ecco il lavoro di Flora, ecco in cosa i suoi talenti possono essere applicati. Non le passa neanche per un momento per la testa che forse i suoi parenti abbiano già ognuno un piano, un’idea, un progetto e che il suo aiuto non richiesto possa venire accolto come un’invasione da parte dello straniero. D’altrocanto loro stessi si dimostrano abbastanza rapidi nell’accettare l’aiuto della cugina di città, le cui intenzioni sono talvolta svelate chiaramente altre fornite come “innocui” suggerimenti ma sempre ben mirati ai propri scopi. 

Qualcuno nel gruppo ha detto che Flora ricorda un po’ una Mary Poppins, ma più oscura. Sì, il richiamo alla celebre tata è senza dubbio presente, con le dovute differenze: anche Flora arriva in soccorso di una famiglia in difficoltà, ne stravolge le abitudini e le dinamiche interne, facendo uso non di segrete pozioni ma di un certo acume e forza di carattere; e come Mary Poppins anche lei a missione compiute saluterà senza rimpianti la famiglia e volerà via – non con l’ombrello ma a bordo di un più comodo aereo da turismo. Avrà risolto ogni cosa? La “maledizione” è stata spezzata? Ai lettori la scoperta degli snodi della trama. Una cosa però la voglio dire: molti di questi nodi non saranno sciolti, non tutte le domande troveranno risposta. E qui sta anche una delle debolezze riscontrate nel romanzo di Gibbons: seppur personalmente apprezzi sempre molto un certo grado di indefinitezza – e infatti sono grande estimatrice della forma racconto – qui sono decisamente troppe le questioni lasciate in sospeso e proprio di cruciali, come troppe sono le cose su cui Gibbons svicola con qualche escamotage.
Su questa linea delle debolezze riscontrate in questo romanzo pur godibilissimo, un elemento è a mio avviso di natura strutturale: il problema di fondo è nell’impianto romanzesco scelto per questa storia che, fosse stata una novella lunga, avrei trovato praticamente perfetta. Nella forma romanzo, con tutto ciò che questo comporta, la satira perde di intensità, quei nodi irrisolti si fanno difetto appunto e la narrazione altalenante. Si avverte poi la mancanza di un apparato critico adeguato, fondamentale in questo caso contestualizzare l’opera, i rimandi, la tradizione su cui si poggia e l’intento satirico, che altrimenti rischiano di essere fraintesi quando del tutto non colti.

Ciò che però alla fine rende tanto speciale questo testo è proprio l’uso della satira attraverso cui Gibbons interpreta quel già citato dualismo città/campagna, ma anche altri aspetti che val la pena considerare. C’è di fondo una satira sottile e molto arguta della corrente realista, del romanzo di formazione e l’happy ending che attraversa buona parte del romanzo vittoriano e che Gibbons conosce molto bene e rimaneggia in modo assai efficace. Il viaggio dell’eroina verso l’età adulta – poco importa se Flora è già una donna – la ricerca del suo posto nel mondo, la perseveranza, le difficoltà, l’antagonista contro cui battersi, alla fine il successo. E nelle intenzioni di Flora questa storia, la sua storia, si può chiudere dignitosamente solo in un modo, ossia con il giusto matrimonio. È, ancora, satira di una certa letteratura di ambientazione rurale, del genere passionale e gotico, da Thomas Hardy a D.H. Lawrence passando per Mary Webb, le cui eco si sentono chiaramente in tutta la narrazione, come altrettanto forte è il legame con la Emma di Jane Austen e la risolutezza con cui mira a sistemare la vita di tutti coloro che ha intorno. Restando per un momento ancora alle citazioni e riferimenti letterari, un passaggio assai intrigante è quello dedicato al genio delle sorelle Bronte che uno dei personaggi - lo spasimante di Flora, un Mr Collins ancora più impacciato e pure intellettuale - mette in discussione: impossibile secondo lui che opere di tale portata siano state scritte da donne! È chiaro che dietro quei testi ci sia il genio del fratello, Branwell, per lungo tempo denigrato e descritto come un alcolizzato quando invece voleva solo proteggere l'onore della vera alcolizzata di famiglia, ossia una delle sorelle. È un passaggio che certo fa molto sorridere per l'uso dell'ironia che ne fa la scrittrice, ma che ovviamente serve anche a sottolineare una questione reale, ossia la negazione del talento femminile.  

E c’è, inoltre, un altro elemento assai intrigante che è proprio nell’ambientazione temporale e nell’uso di certi elementi “bizzarri”: come sottolinea l’autrice in una nota a fondo pagina in apertura del romanzo, la storia è ambientata in un futuro prossimo, non meglio specificato; qui e là notiamo dettagli e riferimenti che ci fanno pensare ora più precisamente a una certa connotazione temporale (e direi intorno agli anni Trenta) ora meno, in una dissolvenza che sono convinta sia assolutamente voluta dall’autrice. Cosa ancora più curiosa è l’inserimento di alcuni dettagli che potremmo definire “futuristici” e che si inseriscono in modo naturale nella narrazione, senza quindi alcun intento fantascientifico o altro: uno su tutti, per esempio, l’accenno a quello che oggi definiremmo un video telefono, dettaglio stravagante per questo romanzo ma calato con naturalezza nella storia. Che sia un altro livello di satira, con una strizzata d’occhio al genere fantascientifico?

Quel che mi pare certo alla fine della lettura è che il romanzo di Gibbons, pur con alcune debolezze, si rivela molto più stratificato di quanto potrebbe sembrare e praticamente nulla è lasciato al caso. La vena satirica dell’autrice abbraccia molte forme e topoi letterari, di cui forse abbiamo appena iniziata a scalfire la superficie. Un romanzo imperfetto e forse uno di quelli in tanti anni che è piaciuto meno nel gruppo: eppure, anzi forse proprio per questo, una delle discussioni più appassionate e interessanti. Perché alla fine è proprio lì il senso della Letteratura.

Debora Lambruschini