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Donne come me. Storia di un’amicizia tra le pareti di un manicomio: Violet Gibson, la donna che attentò alla vita del Duce e Lucia, la “figlia picchiatella” di Joyce. Un’interessante proposta della 8tto edizioni

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Bang Bang Mussolini. L’amicizia immaginata tra Lucia Joyce e Violet Gibson
di Anna Vaught
8tto Edizioni, marzo 2023

Traduzione di Cristina Cigognini

pp. 320
€ 19,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)


Il romanzo si basa su una invenzione, una fiction: l’amicizia tra due donne che non si sono mai incontrate di persona: una è Violet Gibson detta Lady Gibson, per via del lignaggio aristocratico, l’altra è Lucia Joyce, figlia d’arte.
La scrittrice Anna Vaught, con il fondamentale ausilio dell’immaginazione, nel suo libro le fa diventare compagne di destino: entrambe sono confinate al St Andrew’s General Lunatic Asylum (così l’ospedale psichiatrico si chiamava all’epoca dei fatti).
Due donne, si è appena scritto, in realtà si parla di ben quattro donne nel libro. La voce narrante, Lucia Joyce - figlia del grande scrittore - racconta le sorti sue, quelle di Lady Violet compagna di ospedale, di Blanche Wittman e di Bertha Pappenheim, tutte accomunate dalla diagnosi di isteria, quindi portatrici sane -non dal punto di vista psichiatrico, evidentemente - di “utero errante”.
Ognuna di loro, agli occhi di Violet, rappresenta un uccello: Lucia il tordo bottaccio, Bertha l’usignolo, Blanche il pettirosso. Donne non amate «o non nel modo giusto. Vedersi negata la redenzione» (p. 136).
L’amore come redenzione è ciò che è mancato a queste donne: quando non psicologicamente già tarate, figure genitoriali assenti o prese esclusivamente dal figlio maschio, uomini deboli che non le hanno comprese e la mancata elaborazione del lutto di persone care, come nel caso di Lucia Joyce. Soprattutto quella straordinaria energia interiore, nervosa, quel sacro fuoco che non ha avuto modo di esprimersi, perché insito nel corpo di una donna, da secoli considerata inferiore all’uomo. Il corpo, quel benedetto corpo femminile è stato l’ossessione degli uomini da millenni: la causa di ogni male era dunque da cercarsi all’interno del corpo della donna. E quale organo privilegiato di tanta attenzione, scrupolo, indagine se non quello adibito al mistero della riproduzione della vita?
Donne esposte, mostrate a giovani tirocinanti, a studiosi ed ai luminari della scienza dell’epoca che sotto l’etichetta di isteria, piazzavano i vari malesseri psichici “tipicamente” femminili.
Giocando sul filo dell’ambiguità che vivacizza la vita così come la narrazione, Violet racconta e Lucia trascrive con cura le parole e le espressioni dell’amica, storie affascinanti, a volte anche toccanti, di donne che hanno perso la loro libertà, schiacciate da una società patriarcale ignorante e rigida che non le ha comprese. 
Una gabbia dorata è pur sempre una gabbia e le cose a cui avrei dovuto tenere, i balli, gli abiti eleganti, tutto tutto tutto, erano oro finto, almeno per me. Abbiate pazienza con me, per favore. So che a volte sono incoerente, o almeno lo sembro. Ma la mia immaginazione è violenta e necessaria perché la mia libertà mi è stata portata via. (p. 149)

La prima donna con cui facciamo conoscenza è Violet Albina Gibson, mancata assassina del duce. Il 7 aprile 1926, era a Roma infatti, e, spinta da una energia filantropica, convinta di fare del bene non solo all’Italia, ma al mondo intero, fece partire dal suo revolver Lebel un colpo che sfiorò di striscio il naso di Mussolini, ferendolo, senza ucciderlo. Aveva provato senza risultato a cambiare il corso della storia del mondo: la sua vita, invece, da quel giorno cambiò del tutto. Venne subito dichiarata pazza e a Roma fu sottoposta a fastidiose e ripetute “ispezioni interne”; l’anno dopo venne trasferita in Inghilterra, nel manicomio di Saint Andrew’s. È qui che Vaught le fa conoscere la “figlia picchiatella” di James Joyce, Lucia, che Violet chiama spesso “Luce Lucia”, con voluto gioco di parole (e di significato).

Caratteristica peculiare di Violet è un curioso interesse verso i piccoli volatili, al punto che la sua terapia, accordatale dal dottor Griffith che la segue, prevede un giornaliero momento di libertà in giardino, con le braccia tese al cielo, in attesa che i passerotti vengano a beccare i semi dalle sue mani e dalle taschine attaccate a mo’ di sacchetti fatte cucire appositamente sul suo abito preferito di crêpe nero. In quel momento - ricorda Lucia nei taccuini - Violet incarna il San Francesco di Giotto, un dipinto che lei adora in particolare su tutte le altre opere d’arte che conosce, e non sono poche. In camera ha con sé, tra gli altri libri, Le vite del Vasari, tenuto con religiosa cura. Lady Violet è una donna molto colta, una aristocratica istruita, che probabilmente avrebbe approfondito meglio i suoi studi se non fosse nata donna. «Violet nacque nell’eleganza e nella solitudine» (p. 155) scriverà poi Lucia nei suoi taccuini dopo la morte dall’amica.
Ah, ma io conosco i passerotti e loro conoscono me. […] Quando mi videro quel giorno, la folla a Roma, non potei allungare le mani verso di loro, perché tenevo la pistola. Ero minuscola, dall’aspetto fragile, con un trasandato abito nero arruffato, capelli grigi di vecchia e occhiali. […] Nella mia tasca il piccolo revolver era tiepido e pronto per Dio. Pensarono che stessi salutando - il caro vecchio Benito, vedeva se stesso grandioso quando il Mare Nostrum. Ma no! Presi la mira, premetti il grilletto, a una distanza di venti centimetri. La deità si stupì, il suo sguardo freddo incontrò il mio, il sangue tra le dita mentre barcollava. Sparai ancora, e la folla abbaiante con il braccio alzato si immobilizzò. La pistola roteò in aria e mi sentii tirare per i capelli, e fui calpestata mentre i seguaci venivano a prendermi. Fu durante lo sparo, o quando ero stesa a terra, senza nemmeno pararmi dai colpi, che sentii gridare è matta, matta, matta? (pp. 60-61)

È proprio Violet che conosce le storie delle altre tre donne, ha avuto tutto il tempo di informarsi da giornali e riviste e le immagina dal vissuto simili al suo. Conosce anche la storia di Lucia Joyce, che, una volta morto il padre, si è trovata da sola e misconosciuta dal parentado. «Si dice tu sia stata cancellata, sparite le tue lettere; documenti distrutti, tutto in cenere» (p. 74) e chiede proprio a quest’ultima di trascrivere la sua storia e quella delle altre, dichiarate pazze come lei, che sono state seguite da nomi di tutto rispetto della scienza e della medicina: Charcot, Freud, Jung.

Bertha, conosciuta anche come Anna O., è stata nel manicomio parigino di Salpêtriere,  nell’immaginazione di Lady Violet, dice:
[…] così giovane, tiravo fuori del latino, dalla mia casa dei tesori e delle cose proibite, i miei genitori avrebbero preferito che fossi un maschio. Non mi fu tenuto nascosto e, a sedici anni lasciai la scuola e fui invece obbligata a imparare a cucinare cibo kosher, capirne di economia domestica e passare le giornate a cucire. Ero furiosa. Mio fratello più piccolo Wilhelm, intanto, frequentava la scuola superiore, con buoni risultati. Frignava e si lamentava della noia della reclusione durante le lezioni e, una volta, non essendo la brava signorina che dovevo essere, presi il mio cestino da cucito e glielo gettai addosso, urlando. «Che ne sai tu, come osi! Tu che sei libero!» (p. 123)

In quest’opera, dunque, Vaught dà la voce a donne che non hanno potuto parlare, soffocate dall’ignoranza, umiliate da indesiderate ispezioni interne, trattate a volte come “fenomeni da baraccone”.

Nella bellissima lettera che Lucy trascrive, Lady Violet parla di sè, delle sue origini aristocratiche, del mancato delitto e degli anni crepuscolari passati a rimuginare in manicomio.
Le donne, sostiene:
Non ci si aspettava che avessero “alcuna occupazione di importanza sufficiente da non dover essere interrotta” e dovevamo sprecare i nostri giorni a occuparci di questo, a occuparci di quello, a cucire, a leggere ad alta voce e a fare giri in carrozza. Di notte, come Cassandra, io urlavo perché pagavo il prezzo “dell’accumulo dell’energia nervosa” che fa sentire le donne così “come se stessero impazzendo”. (p. 133)
A questo accumulo di energia, di bisogno di mettere a frutto il proprio talento e la propria vocazione, che a me ha fatto pensare alla fantomatica sorella di Shakespeare di cui parla la Woolf in Una stanza tutta per sé, ci si aggiunge il trauma della perdita e della mancata elaborazione del lutto da parte di sensibilità così speciali e spiccate. Lady Gibson, anche da morta, continua a parlare -attraverso il ricordo e gli appunti di Lucy - alle sue eroine, alle altre “donne come me”: Bertha, Blanche, Lucy alle quali ha associato un uccellino a lei caro. Insieme a lei, che si fa rappresentare dall’amato passerotto, sono quattro donne non comprese, non amate abbastanza, quattro esserini che sognano di poter volare con le proprie ali. 
La casa editrice ha curato per bene anche la copertina: vi sono raffigurati quattro uccellini posati non su un ramo, ma su una pistola, il revolver usato contro Mussolini da Violet, i loro occhietti sono coperti da dei segni a forma di croce e dall’arma pende una gabbia, simbolo della loro prigionia nel manicomio.
Lady Violet e l’autrice del romanzo hanno dato a loro la voce e il riscatto.
E cantiamo Io sono nelle nostre diverse voci. Lo gridiamo; sì, lo proclamiamo sinceramente al mondo al di là dell’ospedale che sta proprio alle nostre spalle e gridiamo: Io sono. Io sono. IO SONO! (p. 227)

 

Marianna Inserra