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Riporre le proprie speranze nel pianeta Poesia: una cosmicomica storia comune in "Distopia pop" di Francesca Guercio

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Distopia Pop
di Francesca Guercio
Alessandro Polidoro Editore, novembre 2022

pp. 278
€ 14,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)


Non sono mai stata brava con i numeri e con la statistica, ma sarebbe interessante sommare tutti i libri, articoli di giornale, documentari d’inchiesta, film (e chi più ne ha più ne metta) che si ergono a specchio della società odierna, quella in cui annaspiamo e nuotiamo “a cagnolino” per rimanere a galla; a volte goffamente e con scarsi risultati, a volte con eleganza e successo.

Si tratta, quasi sempre, di materiali di denuncia, e sono convinta siano necessari, per mille motivi. Tuttavia, trovo che a volte quello specchio si infranga in tanti piccoli pezzi, ridotto a un mucchietto di polemiche. Gli ingredienti della ricetta sono necessari, ma a volte nel condimento andrebbero inseriti anche dei barlumi di speranza. Il buio non può essere solo ed esclusivamente assenza di luce, mi dispiace caro Einstein. Se è vero che tutti noi, per coltivare la nostra umanità, abbiamo bisogno di indignarci di fronte alle ingiustizie e a ciò che non va nel mondo, anche nel nostro piccolo, è altrettanto vero che dobbiamo lavorare quotidianamente affinché il nostro valore venga un giorno riconosciuto. La denuncia, senza la giusta dose di ironia tagliente e di poesia nella visione del mondo, rischia di rimanere sterile.

Ed ecco che entra in scena il nuovo romanzo di Francesca Guercio, Distopia pop, che dell’ironia fa la sua arma letteraria. Ho avuto la fortuna di leggere in anteprima il primo romanzo di Guercio, O d’amarti o morire, pubblicato sempre da Polidoro Editore, e l’avevo amato, nella sua ossatura letteraria e nel suo spessore emotivo. Quindi si potrebbe pensare che io sia un po’ di parte quando affermo che questo suo nuovo romanzo mi è piaciuto moltissimo, per la sua varietà, per le sinestesie dosate sempre chirurgicamente, per essere capace di farci ridere anche quando leggendo capiamo che non ci sarebbe proprio nulla da ridere.

Ma veniamo brevemente alla struttura del romanzo: l’autrice lo divide in tre racconti alternati che costituiscono, a mio avviso, i tre livelli della narrazione che sono solo apparentemente scollegati tra di loro. Abbiamo il primo livello, con i capitoli che si intitolano “Cronografia…”, ambientati sul pianeta Terra, in cui Clotilde racconta la sua storia. È una giovane storica dell’arte, costretta a fare diversi lavori per sbarcare il lunario, senza mai però raggiungere il riconoscimento che merita. Racconta la sua vita quotidiana, tra chiacchiere con le amiche e con il suo coinquilino Aldo, e si trova meglio a filosofeggiare sulla vita – tentando di trovarvi un senso – con suo nipote, “più pernicioso di un saggio zen” (p. 153), che con il suo spensierato acume riesce a coprire il velo di ansia lavorativa ed affettiva che opacizza la vita di Clotilde.

Parallelamente, su Un altro piano, veniamo catapultati nella BASE FATO della “commissione di osservazione artistica istituita dal consiglio superiore per la valutazione e la selezione delle razze cosmiche”. Gli extraterrestri, per comprendere il genere umano, hanno il compito di analizzare le canzoni pop che hanno segnato la storia della musica umana, dai Beatles a De André. Le canzoni vengono spesso viste come dei reperti insignificanti, ma a volte viene riconosciuto il loro valore, come per “All you need is love”:
- Questa canzone è carina.
- Da quando sei un’esperta di musica?
- Fosse per me, sarebbe già una buona ragione per non sterminarli questi terrestri. (p. 23) 
Ecco che la produzione artistica e culturale può letteralmente salvare gli umani sulla Terra: dalla loro stessa sorte, o dalla volontà che gli alieni hanno di eliminarli una volta per tutte.

Tra questi due mondi paralleli si insinuano, come fumo tra le crepe, i capitoli del “Corsivo ortogonale”, in cui la punteggiatura svanisce per lasciare spazio a un breve flusso di coscienza descrittivo e tagliente, spesso ermetico e nebuloso. D’altronde, non si capisce mai realmente cosa passa nella testa di una persona.

Questi tre livelli si alternano nel procedere del romanzo, rivelando al contempo una tragica realtà, in cui una ragazza capace deve sempre annaspare per cercare di non annegare nella società odierna, e una speranza di miglioramento dato dall’arte e dalla poesia.

Con l’arma dell’ironia puntata dritta verso di noi, Clotilde ci restituisce nude e crude le verità dell’esistenza e le tragiche leggi che regolano il procedere del mondo:

La vita è una specie di croce, penso. Per qualcuno proprio un accollo. Solo tormenti e tribolazioni. Qualcun altro ci pattina meglio, ma di lusso non va a nessuno. La vita è capricciosa, prepotente, arbitraria. Sceglie lei. (…) Metti di nascere da due genitori forniti di un QI nella norma, una fiducia incrollabile nei valori dell’etica e malcelate origini calabresi e può succedere che ti chiami Clotilde in omaggio a un’ava vigorosa, impari la modestia di disertare lo specchio anche se ti ricorda che hai delle misure di tutto rispetto, ti laurei cum laude in storia dell’arte e finisci freelance nel mondo crudele degli allestimenti di mostre e installazioni. Il tutto, dribblando galleristi e mecenati affetti da bizzarre e occasionali forme di strabismo che accettano la tua collaborazione professionale mente un occhio distratto scorre lungo il curriculum e l’altro più attento sosta volentieri nell’incavo della tua scollatura. Questo è precisamente ciò che è successo a me. (pp. 15-16)
La protagonista della Cronostoria si fa così portavoce di una – ahimè! – troppo frequente condizione, almeno in Italia, che riguarda un’altissima formazione, passione e professionalità, sposata a un precariato geloso e possessivo.

Francesca Guercio, ancora una volta, riesce a unire con genialità e maestria la ragione e i sentimenti, il tragico incedere della quotidianità con una speranza sempre presente, anche se a volte lontana.

Un libro da leggere per ricordarci che se è vero che dobbiamo lottare con il precariato, in una società in cui è sempre più difficile trovare una stabilità lavorativa ed emotiva, è altrettanto vero che un modo per salvarci, un salvagente in questo mare c’è: è la cultura, l’arte, la poesia, che ci rendono umani e quindi capaci di condire di bellezza la nostra vita.

Altrimenti gli alieni verranno e ci elimineranno, non senza prima salvare e intascarsi qualche vinile di De André.


Lidia Tecchiati