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«Le donne si sentono libere?»: il centro nevralgico de "Il mito della bellezza" di Naomi Woolf, cuore dell'intervista alle due curatrici

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Un libro di culto, «un classico del pensiero femminista»: la nuova edizione de Il mito della bellezza di Naomi Wolf, da molti anni introvabile in Italia, era un testo molto atteso. Denso di spunti ancora attualissimi e urgenti, è una lettura stratificata, che pone al centro il discorso sulla bellezza intesa come strumento di oppressione. Abbiamo colto l'occasione dell'uscita per dialogare con le due curatrici dell'edizione italiana, Jennifer Guerra e Maura Gancitano.

Scrittrici, attiviste, filosofe, intellettuali attente alle tematiche femministe e alla strumentalizzazione dei corpi: nel vostro percorso umano e professionale molto vi accomuna e presumo il lavoro sul testo di Wolf sia stato condiviso quindi in maniera particolarmente sentita. Potete raccontarci la genesi di questa nuova edizione e come vi siete approcciate al testo?
(Jennifer Guerra) Io ho scoperto Il mito della bellezza quando ho cominciato a scrivere Il corpo elettrico. All’epoca, anche per la difficoltà nel reperire il testo, mi ero accontentata di una lettura un po’ superficiale, mentre con la curatela ho avuto l’occasione di leggere il libro più e più volte e di soffermarmi letteralmente su ogni parola. L’abbiamo aggiornato adeguandolo alle edizioni più recenti, abbiamo rivisto la traduzione di alcuni termini e abbiamo scritto delle note per accompagnare nella lettura di un testo che è ancora molto attuale, ma che ha anche trent’anni. Ogni lettura è come se avesse aggiunto uno strato di comprensione del testo e per quanto riguarda me, che sono alla prima esperienza di curatela, non era mai successo di entrare così in profondità di un libro.

Le donne si sentono libere? È la domanda, il centro nevralgico, di questo saggio. In un’epoca e una società in cui potremmo più facilmente definirci libere, siamo però prigioniere della bellezza e di determinati canoni estetici. Partiamo da qui, quindi: rispetto agli anni Novanta di Wolf, siamo ancora più vittime del mito della bellezza? Quali sono le urgenze più pericolose di oggi?
Maura Gancitano Photo credit: Rino Bianchi
(Maura Gancitano) Senza dubbio, rispetto agli anni Novanta siamo più consapevoli del mito: sui social e su ogni mezzo di comunicazione si parla di modelli di bellezza oppressivi, abbiamo a disposizione studi scientifici che dimostrano gli effetti degli standard sulla vita delle persone. Eppure, non siamo più libere. La teoria dell’oggettivazione di Barbara L. Fredrickson e Tomi-Ann Roberts del 1997, secondo la quale i corpi femminili vengono valutati e osservati in misura maggiore rispetto a quelli maschili e percepiti come oggetti, ha permesso di comprendere molto profondamente il fenomeno descritto da Wolf e ha dato vita a una vasta serie di ricerche in tutto il mondo, ma la pressione del mito non si è fatta meno forte, e tocca sempre di più anche ragazzi e uomini. In effetti, se sapere come il mito agisce è necessario, non è sufficiente per liberarsene: ciò che serve, secondo gli scienziati, è coltivare un’immagine positiva di sé, e si tratta ovviamente di un percorso lungo. I social network e la pubblicità che ormai ci raggiunge ovunque lo rendono ancora più incidentato e faticoso.


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Nella tesi di Wolf, la bellezza è uno strumento del patriarcato attraverso cui esercitare il proprio potere e controllo sulle donne. Un’arma molto pericolosa che rappresenta le contraddizioni della società contemporanea e alcuni tra gli stereotipi più insidiosi. Oggi, nell’era dei social, come viene esercitato secondo voi questo controllo?
(JG) Io credo che venga esercitato nello stesso modo, ma attraverso delle strategie diverse. Wolf descrive un modello comunicativo ora paternalistico ora aggressivo: le aziende di cosmesi ti compativano o ti insultavano per il tuo aspetto. Oggi invece il messaggio è sempre positivo, è “sei bella così come sei”, ma l’obiettivo rimane lo stesso: quello di venderti un prodotto. E in più sono saltati tutti gli intermediari. Mentre prima la pubblicità la vedevi solo quando aprivi una rivista o accendevi la tv, ora con i social non puoi sfuggirgli in nessun modo, ed è l’azienda che ti parla in maniera diretta.

Body positivity: il principio alla base, l’accettazione positiva del proprio corpo svincolata da rigidi e fuorvianti canoni estetici, è qualcosa di profondamente positivo. Eppure, nella sua pratica anche la body positivity è stata trasfigurata: i brand, l’industria e i media spesso la strumentalizzano e al contempo nel concreto pare essere diventata un’altra gabbia dentro cui chiudere le donne. Che cosa ne pensate?
(MG) La società di mercato è in grado di inglobare ogni cosa, e ha bisogno di farlo soprattutto quando certi discorsi rappresentano una minaccia per la spinta al consumo. Succede con ogni forma di attivismo: le questioni vengono intercettate, discorsi complessi diventano slogan e in questo modo, anziché servire per cambiare le cose, vengono disinnescati. Secondo Jia Tolentino, queste forme di ribellione sono in realtà addomesticate, non mettono minimamente in crisi le strutture e anzi foraggiano i social e tutta la comunicazione, perché creano engagement. In sostanza, la resistenza a un sistema si presenta alle condizioni del sistema. Secondo l’autrice canadese questo dipende dal fatto che la tecnologia ci ha reso meno oppositivi e ha massimizzato la nostra capacità come beni di mercato, senza toccare le questioni scottanti di diseguaglianza sociale, che rimangono poco instagrammabili. È importante quindi parlare di mito della bellezza, ma senza disinnescare il potenziale rivoluzionario di questo discorso.

A trent’anni dalla sua prima pubblicazione (Usa, 1991), grazie a questa nuova edizione italiana che lo ha reso nuovamente disponibile, Il mito della bellezza sta girando moltissimo e voi con lui, tra interviste, dibattiti, riflessioni: che cosa vi ha colpito finora della ricezione di questo testo da parte del pubblico? Come viene interpretato dalla prima generazione che l’aveva letto e come da chi lo scopre ora per la prima volta?
(JG) Era un libro attesissimo, sia da chi magari l’aveva letto da ragazza trent’anni fa, sia da chi ne aveva sempre sentito parlare senza mai averlo fra le mani. È a tutti gli effetti un libro di culto, un classico del femminismo. Ovviamente ciò è dovuto alla sua straordinaria attualità, e credo anche all’urgenza dei temi che propone. Con i social e la loro dittatura delle immagini, con l’esplosione della cosiddetta body positivity, i discorsi sulla bellezza sono molto sentiti, anche fra gli uomini. Questo libro rappresenta per molti versi il punto zero di questo dibattito.

Quali sono secondo voi i passaggi più critici del saggio di Wolf, i concetti/le tesi che non hanno superato la prova del tempo? In che modo quindi possiamo interpretarli in maniera efficace?
(MG) “Il mito della bellezza” è, al contrario di altri casi, un libro invecchiato bene, perché - purtroppo - la teoria di Wolf descrive ancora i meccanismi della nostra società. Cionondimeno, è stato scritto quando nel dibattito pubblico erano ancora invisibili le questioni legate agli orientamenti sessuali non etero e alle identità di genere, infatti l’autrice parla essenzialmente di amore eterosessuale come via per liberarsi dal mito della bellezza e non accenna ai corpi delle donne trans e di tutte le soggettività diverse da quelle delle femmine genetiche. È già presente, però, una differenza tra sesso come sostrato biologico e genere come costruzione culturale. Non possiamo quindi trovare le prospettive che oggi potremmo definire “intersezionale” o “transfemminista”, ma chi legge il libro può integrarle senza difficoltà, perché lo sguardo dell’autrice non è mai chiuso su una visione del mondo esaustiva. È anche la ragione per cui grazie a questo libro molte persone hanno potuto lavorare sul tema e scoprire moltissimo sui rapporti sociali e sui meccanismi di rappresentazione.

Essere consapevoli del pericolo della bellezza da solo non basta: che cosa possiamo fare nel concreto per cambiare questo stato di cose?
(JG) Io non credo che noi, come singoli, possiamo farci molto, al di là di avere consapevolezza. Il mito della bellezza è un libro molto duro, spesso cinico, ma si chiude con un capitolo in cui il tono cambia completamente e si apre alla speranza di una nuova ondata del femminismo, che l’autrice auspica sia in grado di risolvere questi problemi. A trent’anni di distanza si può dire che non è andata così, anche se questa nuova ondata c’è stata, e credo che il problema stia proprio nel fatto che non ci sono soluzioni individuali a problemi sistemici.

In capitoli dedicati, il saggio riflette sul mito della bellezza applicato a settori diversi: il lavoro, la cultura, il sesso, la fame, la violenza. Addentriamoci nel nostro settore di riferimento, quello culturale e portiamo la riflessione sul discorso letterario: in questo ambiente, come viene utilizzato, se viene utilizzato secondo voi, lo strumento della bellezza per controllare le donne, scrittrici o professioniste della cultura?
(MG) Le donne che si occupano di cultura vengono viste ancora come creature strane, capitate per caso in un ambiente che per natura non dovrebbero frequentare. In realtà, tutto il comparto culturale non potrebbe sopravvivere senza il lavoro e il pubblico femminili. Quello che accade, è che ancora la donna occupa soprattutto lo spazio dietro le quinte oppure le poltrone del pubblico, mentre il palco, le classifiche di vendita i luoghi di visibilità rimangono ancora difficili da raggiungere, e lo spazio sembra ancora scarso. Non significa che ogni donna debba aspirare a raggiungere quei posti, ma che viviamo in un paese in cui i libri scritti da donne vengono considerati meno autorevoli (quando si tratta di saggi) e meno interessanti (quando si tratta di narrativa o poesia) e che quando pensiamo a una intellettuale pensiamo ancora prima di tutto alla sua fisicità e, come accade in altri ambiti, chiediamo che sia bella, decorosa, ben vestita, ma non troppo. Questo ha ovviamente un effetto sul modo in cui lei stessa si percepisce, sul fatto che debba cercare di essere piacevole ma non troppo esuberante per non rischiare di essere vista come una persona frivola o, peggio, un’impostora.

Dalla mistica della femminilità di Betty Friedman al mito della bellezza di Naomi Wolf e oggi, tra le tante pericolose derive pare esserci il fenomeno delle “stay at home girlfriends”. Ancora una volta un concetto che viene passato come desiderio femminile ma che a osservarlo bene mi sembra invece non sia altro che un “nuovo” strumento del patriarcato. Che cosa ne pensate?
(JG) È sempre difficile stabilire un confine netto tra libertà di scelta e desideri condizionati. Il femminismo mi ha insegnato a sospendere il giudizio anche di fronte a scelte che non condivido e che magari considero pure deleterie, nel rispetto dell’autodeterminazione altrui. In fondo, una critica che veniva fatta spesso a Naomi Wolf era che lei condannava il mito della bellezza, ma poi si truccava. Riconoscere l’esistenza di questi meccanismi non deve trasformarsi in condanna verso chi li abbraccia.

Spesso nel dibattito femminista si insinuano pensieri pericolosi del tipo “ci sono cose più urgenti di cui occuparsi”, rivolti a questioni specifiche che per molti sono considerati marginali nell’ottica più generale delle discriminazioni e violenza cui le donne sono soggette. Il discorso sulla bellezza rischia di rientrare in questo fraintendimento eppure è un problema quanto mai urgente e mi sorprende che non sia al centro del dibattito. Qual è la vostra opinione a riguardo?
(MG) Già quando uscì, all’inizio degli anni Novanta, il saggio di Wolf suscitò questo tipo di critiche, proprio perché non riguardava le discriminazioni davvero importanti che le donne vivevano. In realtà, il mito della bellezza permette di vedere la rete di rapporti sociali - che poi sono rapporti di potere - che rende difficile la vita alle donne, spesso in modo subdolo. Quando si parla di bellezza non si può non parlare di lavoro, dibattito pubblico, indipendenza economica, rapporti affettivi e dunque violenza di genere. In particolare, il discorso sulla bellezza illumina il metodo con cui la discriminazione si manifesta: a volte è dichiarata e consapevole, ma altre volte si mostra sotto forma di spinta alla cura di sé, al decoro, alla mancanza personale di autostima e a questioni individuali. Si dice che non è la società a spingere la donna a occuparsi ossessivamente del proprio aspetto, è lei a essere troppo insicura oppure vanitosa. Mostrare che, al contrario, tutto questo è un frutto culturale può aiutare a vedere la complessità dei rapporti di potere in modo nuovo.

Intervista a cura di Debora Lambruschini

Si ringraziano le autrici e l'ufficio stampa per la disponibilità - foto pubblicate su autorizzazione della casa editrice