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Due brevi considerazioni su "La colpa al capitalismo" di Francesco Targhetta

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La colpa al capitalismo
di Francesco Targhetta
La Nave di Teseo, 2022

pp. 160
18,00 € (cartaceo)
9,99 € (e-book)


Per prima cosa, vorrei fare un atto di contrizione, in qualche modo di autodenuncia, forse anche di parresia, un atto di messa in pubblico di una lacuna che mi ha creato un senso lieve di inadeguatezza, considerando che il mio campo di studi è suppergiù quello della letteratura contemporanea: fino a qualche tempo fa, fino, cioè, al giorno prima di avere l’occasione di mettere mano su questo volume, non conoscevo la poesia di Francesco Targhetta. Parlo di atto di contrizione senza usare nessuna retorica, soprattutto perché La colpa al capitalismo, raccolta di poesie uscita per #La Nave di Teseo il maggio scorso, è un libro che merita più di una considerazione, magari anche un’analisi critica un po’ più approfondita rispetto alla semplice recensione. Tuttavia, non è questo il caso, né è il luogo idoneo per farlo, e, magari, non sono nemmeno lo studioso adatto al momento. Mi premurerò, dunque, di scrivere solo due brevi considerazioni in merito, più per proporre una sorta di introduzione a quello che penso possa essere il centro del libro, che per dare una particolare luce critica alla poetica dell’opera o, addirittura, dell’autore (di cui, comunque, recupererò quanto prima le altre pubblicazioni). La prima è di carattere generale, in parte anche di natura tematica o contenutistica; la seconda è più intertestuale e affronta alcune considerazioni letterarie che mi sono sembrate degne di nota.

1. «Tutto è politico»?

Nel panorama della poesia contemporanea (mi riferisco a quella cronologicamente a noi vicina e non a quella su cui di norma si discute in sede critica universitaria e scolastica) il discorso ideologico intorno al potere è in molti casi non affrontato, e, qualora pure venga fatto, è discusso in maniera periferica, meno dibattuto rispetto, per esempio, agli anni ’60 o ’70 del Novecento, sia per l’avvenuta perdita delle ideologie nella vita quotidiana, sia per una precisa scelta autoriale dei poeti: per usare una terminologia scacchistica, molto spesso il rapporto tra la letteratura e le strutture politico-ideologiche è affrontato en passant, senza una riflessione critica evidente. Non a caso si è parlato, in varie sedi, di fine dell’ideologia, di vittoria del capitalismo e di letteratura post-ideologica, per usare alcune delle tante etichette che si vedono anche solo facendo un rapido giro sul web (sulla mania dell’etichetta e del categorizzare bisognerebbe discutere approfonditamente, ma, anche questa volta, non mi pare questo il contesto adatto). Eppure, alcune volte può accadere che, proprio come nella mossa di pedoni, la soluzione di una situazione complessa e problematica si abbia proprio in questo modo, proprio con un’azione diagonale poco frequente e, comunque, per lo più offensiva. La domanda da porsi, allora, è se quest’azione en passant sia presente anche nel libro di Targhetta, se, dunque, anche La colpa al capitalismo possa essere inserito in questa grande categoria post-ideologica, oppure se il discorso intorno al mondo capitalistico (e al rapporto che questo ha con le classi sociali e le individualità) e quello sui rapporti di potere siano affrontati di petto. Io sono sicuro che la risposta sia duplice: da una parte c’è la sua messa in evidenza, non solo dal titolo della raccolta, ma anche da alcune poesie come, per esempio, Shelf life, Das Kapital e dal dittico Impossibilità dell’odio di classe e Necessità dell’odio di classe, nonché dall’uso esplicito di marchi e oggetti mercificati («sneakers seminuove», «vecchio Nokia», ecc.); dall’altra c’è un modo di fare poesia e di affrontare il problema, e dunque tutta la realtà del mondo capitalistico, che si rifrange nelle esperienze personali dei protagonisti dei testi, modo che affonda le radici in una tradizione ben consolidata e che si rifà a L’anti-edipo di Gilles Deleuze e Félix Guattari, solo per ricordare quella che può essere considerata l'opera teorica più importante per la produzione poetica di questi anni. Il discorso merita delle considerazioni che vadano al di là della mera evidenza, delle riflessioni che mettano in crisi, in un certo senso, per intero la raccolta targhettiana, per avere delle possibili risposte da essa. Allora, ci si deve chiedere, proprio come scrive Targhetta sulla protagonista del componimento d’apertura, se la sua poesia, anche quando appaia solo privata e nata dall’esperienza, sia sempre un modo di dissentire e di rapportarsi al mondo capitalistico o se sia solo una riflessione privata: «è forse penitenza autoinflitta / o il suo modo di dire il dissenso?» (p. 13, vv. 10-11). Il rapporto tra la vita individuale e personale e il mondo mercificato appare, nel corso del libro, sempre molto complicato, retto dall’opposizione tra realtà biologica e realtà capitalistica («C’è la vita cellulare che perdura / (per quanto ancora?) / e la vita da scaffale / che è finita», p. 14, vv. 1-4), dall’angoscia che cresce nell’impossibilità di lasciare una traccia tangibile («[non] abbastanza per cambiare le cose / ma soltanto per far salire / un po’ di angoscia / sempre», p. 23, vv. 4-7), dal disagio presente e riscontrabile nei gesti, nelle espressioni dei personaggi e nei colori del mondo descritto, dall’assenza della religione tradizionale, sostituita da un vago senso di appagamento da ottimizzazione («Al telefono enumera in rosario / […] / quante pratiche quanti incarichi / quanti ipnotici spostamenti», p. 26, vv. 1-4) e dalla sofferenza costante e, alcune volte, esplicitata («e Cristo se è triste, / da atterrire chiunque», p. 27, vv. 11-12). Inoltre, bisogna tenere in considerazione anche il fatto che i personaggi sono spesso caratterizzati dal desiderio di qualcosa (di un'altra vita, di un amore, di socialità, ecc.), direi anche che le loro vite sono prese nel momento in cui questo si manifesta maggiormente; e se bisogna farlo, allora ci si deve anche porre una domanda, che mi pare centrale per il discorso fino a ora portato avanti: questo desiderio che nei testi si mostra a sprazzi, ma è comunque presente, è reale e mira alla liberazione dall'ordine dominante, o è ancora ascrivibile alla logica della mancanza, propugnata dall'ideologia dominante capitalistica? La risposta non è così scontata e meriterebbe delle riflessioni molto più complesse.

L’elenco dei temi critici trattati da Targhetta potrebbe continuare e, dunque, l’analisi potrebbe proseguire, magari anche riflettendo sull’evidente importanza delle liste e degli elenchi e sui suoi riflessi ideologico-politici; ma penso che adesso sia giunto il momento di affrontare brevemente il secondo punto della lista: lo stile e i riferimenti individuabili a un certo canone, o, meglio, i riferimenti che io ho individuato e di cui desidero parlare. Perché, se c’è una verità, questa è che ogni lettore vedrà nell’opera quello che è portato a vedere dall’esperienza, dal gusto, dall’aspettativa, dal momento in cui lo legge. Non sono certamente il primo a dirlo, né sarò l’ultimo.

2. Lo stile è un retaggio delle passate letture dell’autore o del lettore?

Qual è lo stile usato da Targhetta? È possibile ritrovare delle orme di poeti passati, di poesie già scritte e udite? Sono queste le domande che mi sono posto non appena ho terminato di leggere la raccolta. La risposta che mi sono dato, come spesso mi accade, non mi ha del tutto soddisfatto, anche perché sono conscio dell’impossibilità di ricostruire per intero lo stile di un poeta e la sua libreria mentale solo da un’opera, tra l’altro appena letta. Tuttavia, mi ha sorpreso ritrovare un’eco gradevole di poeti che in passato mi hanno entusiasmato e che non credevo di ritrovare, in particolare, in questa raccolta, soprattutto dopo averne letto il titolo. Ma, se qualcosa dello studio letterario è destinato a rimanere per sempre, questo è il piacere della sorpresa delle connessioni che l’opera letta crea di volta in volta nel lettore. In ogni caso, parlerò solo, e in maniera rapida, di due poeti che amo e che mi pare siano chiamati giustamente in causa: Elio Pagliarani e Mario Benedetti.  

La sorpresa di trovare il primo Pagliarani (quello di Cronache e altre poesie e della Ragazza Carla) è stata grande, oltre che molto piacevole. Se della prima raccolta ho sentito soprattutto il gusto per l’elenco tipizzato di vite e il sentore di un ritmo simile in alcuni versi, penso soprattutto alla quartina di Shelf life, in cui si legge «Lo intuisce un sabato di pioggia / ritornando dopocena dal mare, / la pelle del colore della merce / sfiancata dietro una vetrina al sole» (p. 14, vv. 5-8); della Ragazza Carla ho percepito la sensibilità dei personaggi femminili che di volta in volta prendono la parola, per lo più con le loro vite, per lo più con i loro gesti. Così si trovano strofe che sembrano richiamare fortemente il suo racconto in versi, come, per esempio, i densi «quanta poca vergogna porti / per tutto il dolore che sente / se niente di ciò che origina / è stato deciso da lei» (p. 15, vv. 4-7), oppure anche «e nessuno si innamora di lei / ma nessuno nemmeno si accorge / che è questo / quanto pensa ogni giorno / il suo corpo fuori dal sonno» (p. 20, vv. 6-11). Ho ritrovato Pagliarani in tutta la prima parte della raccolta, sezione che, tra l’altro, dà il nome all’opera; ma è come se fosse un fil rouge che la percorre interamente e che di volta in volta sembra affiorare e rendersi più visibile, filo conduttore che io ho apprezzato veramente molto. 

Ma adesso veniamo, rapidamente, ad alcuni versi che mi hanno ricordato tanto Mario Benedetti, soprattutto nel peso che alcune parole hanno, nel ritmo di alcune quartine, nel sentimento vago d’un’esistenza vissuta e non raccontata, nella sofferenza latente ma comunque presente. Non sono tanti, ma hanno una forza che merita di essere sottolineata. Già solo nella splendida poesia d’apertura in cui il paesaggio e l’atmosfera partecipano attivamente all’esperienza raccontata, Benedetti sembra essere presente, quasi tangibile («e di amare follemente le cose / tristi, certe strade, trattorie, pavimenti, / paesi piovosi di media montagna, / le giornate in cui nessuno la pensa, / il bitter, Faenza, il lago di Como», vv. 5-9). Si potrebbe andare avanti con gusto e con passione, tuttavia, non credo che questo sia il compito di una buona recensione.


Giorgio Pozzessere