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La scrittura, la psicoanalisi e il tempo conquistato: "Il corpo in cui sono nata" di Guadalupe Nettel

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Il corpo in cui sono nata
di Guadalupe Nettel
Traduzione di Federica Niola
La Nuova Frontiera, febbraio 2022

pp. 192
€ 16,90 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)

I comportamenti acquisiti durante l'infanzia ci accompagnano per sempre, e anche se a forza di volontà li teniamo a bada, acquattati in un luogo tenebroso della memoria, quando meno ce lo aspettiamo ci saltano in faccia come gatti inferociti. 


Una donna racconta la propria infanzia alla psicoanalista.
A volte la chiama per nome, le si appella con un ricorrente "dottoressa Sazlavski", altre volte porta a galla i ricordi più o meno sommersi riferendosi direttamente a se stessa e implicitamente a noi che siamo all'ascolto della sua storia.
In sintesi si potrebbe dire che Il corpo in cui sono nata di Guadalupe Nettel è questo: una confessione, o forse l'opportunità di spiare una confessione, una rivelazione personale. 
L'autrice sudamericana, che ha fatto innamorare tanti lettori della sua scrittura grazie al romanzo La figlia unica e alle raccolte Petali e altri racconti scomodi e Bestiario sentimentale, qui incentra tutto sul percorso di iniziazione alla vita affrontato da una bambina come tante cresciuta nel Messico degli anni Settanta. Un difetto di nascita, un neo bianco sulla cornea, la costringe per anni a portare un ingombrante cerotto sull'occhio sinistro e influenza significativamente il modo con cui lei osserva il mondo, sempre in cerca di una totalità di sguardo e di senso che le mancano. Come mancano infondo a tutti coloro che stanno crescendo. Il padre e la madre, che sin da piccolissima le insegnano l'esercizio di una verità tanto limpida da risultare brutale, si muovono con lei e il fratello in un contesto familiare che presto si rivela fragile al tatto. Attorno il mondo respira aria di cambiamento tra scuole di indirizzo montessoriano, esuli politici, nuove spinte ideologiche e libertarie che arrivano per soppiantare il vecchio in un paese in cui ogni strada è sede di contrasti. 
La libertà più grande di questo romanzo, però, non è quella che si gioca al di fuori, è quella che la protagonista - voce narrante luminosa e schietta - acquisisce nel tempo appropriandosi dei suoi tanti sé. Lo scopo del raccontare è molto chiaro: rileggersi a ritroso con l'intenzione di non cedere troppo spazio per una volta alle voci degli altri.
Non le interessa raccontare la versione del fratello o dei genitori, né indagare le loro azioni o verificare la veridicità di quanto ricorda, se non nella misura in cui queste vite sono strettamente intrecciate alla sua. Lo spazio che rivendica è totalmente personale:
Ciononostante vorrei chiarire che l'origine di questo racconto risiede nella necessità di capire alcuni fatti e alcune dinamiche che hanno dato forma all'amalgama complesso, al mosaico di immagini, di ricordi e di emozioni che respira con me, ricorda con me, interagisce con gli altri e si rifugia nella penna come altri si rifugiano nell'alcol o nel gioco. 

La scrittura nel romanzo è una vera e propria arma di indagine.
Si scrive per ricordare, per riannodare i fili sconnessi, per comprendere e costruire. E soprattutto per perdonarsi
A partire dal corpo, sede delle nostre identità e prima letterale dimora di ogni persona, lo sguardo si allarga ad abbracciare la crescita come difficoltosa transizione, un mutamento di pelle che nel libro viene sottolineato anche da una migrazione dal Messico alla Francia e dalla necessità di costruire più volte una nuova vita, sempre in bilico tra paesi e culture diverse, tra la madre, il padre, la nonna e i loro segreti. 

I lettori che hanno amato La figlia unica e i racconti di Nettel riconosceranno il suo potente utilizzo di metafore che legano mondo umano e animale in modo molto istintuale: la postura dimessa della protagonista le fa guadagnare l'appellativo di "Scarafaggino"; dentro le scarpe si annida un verme che viene tristemente schiacciato; tra le lenzuola e sui muri della cameretta si ha la sensazione di vedere insetti che piano piano diventano amici. Qua e là compaiono delle farfalle (come sulla copertina) e la nonna a un certo punto la paragona a un cane. Mentre tutto attorno è caos, il richiamo a elementi e leggi di natura risuona rassicurante, certo. 
Come durante una seduta psicoanalitica il flusso del ricordo è continuo e gioca con se stesso, si riprende e si richiama internamente. Progredisce linearmente da un punto di vista temporale, ma quel che più conta è che risponde a un tempo interiore che è il tempo conquistato. Chi è andato o va in terapia potrebbe riconoscerlo.
Non ha a che fare con formali divisioni in anni né con le svolte più manifeste delle nostre esistenze: è un tempo che nasce dalla materia più magmatica della memoria e delle paure bambine. Spesso è fatto di ricordi inconsistenti e mutevoli ma sono proprio questi che possiamo indagare.
Nettel ci dice che le interpretazioni del nostro passato sono assolutamente inevitabili e che nessuno può davvero rimanere fedele ai fatti quando si parla di temi così intimi: 

Forse, quando finalmente l'avrò terminato, per i miei genitori e per mio fratello questo libro non sarà altro che una sequela di menzogne. Mi consolo pensando che ogni oggettività è soggettiva.
È curioso come fino all'ultima pagina il libro risulti ancora in costruzione. È il richiamo più forte e chiaro alla terapia che a un certo punto si decide di terminare anche a fronte di un lavoro potenzialmente infinito di costruzione di sé.
Il corpo in cui siamo nati è come la nostra storia familiare: potrebbero sembrarci immutabili e ineluttabili, come un vento che orienta il percorso della nostra barca sempre verso una sola direzione. Ma c'è poco di realmente immutabile nelle nostre strane esistenze.
L'invito non troppo nascosto tra le pagine di questo libro è quello ad abitare i nostri corpi con tutte le loro particolarità.
Dopo un lungo periplo la bambina, ormai grande, confessa: "I miei occhi e la mia vista erano rimasti immutati, ma vedevo in modo diverso."


Claudia Consoli