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“Classica, seducente e letale”: Tim Blanks racconta “Versace”, tutte le sfilate e le collezioni del marchio della Medusa

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Versace. Sfilate. Tutte le collezioni
di Tim Blanks
traduzione dall’inglese di Maura Parolini, Matteo Curtoni e Paola Salvadori
L’ippocampo, 2021

pp. 632
€ 49,90 (cartaceo)


Quale opzione migliore, per la copertina di un volume come Versace. Sfilate. Tutte le collezioni, di un cartoncino rigido con rivestimento telato golden? C’è tutto – e sicuramente c’è l’essenziale – in quel giallo così brillante e cangiante: c’è, in primis, un esplicito omaggio all’iconico tessuto metal mesh ideato dal compianto e indimenticato Gianni, fondatore della casa di moda nel 1978 (l’ispirazione gli venne a partire da un paio di guanti da macellaio, l’invenzione fu messa a punto con un artigiano tedesco, e nel 1982 gli valse L’Occhio d’Oro, riconoscimento allo stilista italiano dell’anno); c’è poi una luminosa allusione alla lunghissima e liscissima chioma biondo platino di sua sorella Donatella, che ne raccoglierà il testimone prendendo il timone di comando dell’azienda dapprima nel 1994, quando lui, ammalato di cancro, avrà bisogno di dedicarsi esclusivamente alle cure, e poi nel 1997, quando una morte violenta e scioccante lo leverà troppo presto dal mondo; e c’è ancora, e infine, l’ottimistico rimando massimalista al materiale più lussuoso in sé, alle arti “maggiori” e “minori” che lo hanno utilizzato e celebrato, ma anche alla purezza e ricchezza inestimabile del sole della Calabria, terra natale anche del terzo fratello, Santo.


Certo non è così o soltanto così che si giudicano i libri, è vero, ma se in questo caso si facesse un’eccezione e ci si volesse soffermare sull’aspetto più esteriore e superficiale della pubblicazione, si avrebbe la certezza di non fare un torto eccessivo ai contenuti. E del resto chi oserebbe mettere in discussione il potere di un correlativo oggettivo così potente? Di sicuro non il volume appena uscito per la casa editrice L’ippocampo, che con i testi biografici e critici di Tim Blanks e una colonna visiva imponente di oltre 1100 fotografie scattate direttamente on the catwalk ripercorre la storia di una delle case di moda italiane più immediatamente riconoscibili al mondo, forte del carisma dei suoi artefici, dell’immaginario a cui hanno saputo dare vita anno dopo anno e collezione dopo collezione, e di quel surplus di fascino e glamour dato dal connubio di lungo corso con lo star system internazionale. Un elemento, questo, che è andato di pari passo con la “creazione” di una nuova categoria di indossatrici, le cosiddette super top model da 10.000 dollari al giorno, regine di fine millennio e muse indiscusse e riconoscibili per il solo nome di battesimo: Carla (Bruni), Naomi (Campbell), Elena (Christensen), Cindy (Crawford) e Claudia (Schiffer), solo per citare (in ordine alfabetico) le principali rappresentati della categoria nonché le stesse “magnifiche cinque” che, dopo il boom dello storico videoclip di George Michael che all’inizio degli anni Novanta ne celebrò l'importanza iconica, sfilarono nuovamente con Donatella, dopo averlo già fatto con il loro pigmalione Gianni, sulle note di Freedom 90 in occasione della sfilata per il prêt-à-porter Primavera/Estate 2018.


Strutturato in due sezioni principali corrispondenti alla gestione dell’iniziatore Gianni e a quella, ancora in corso, della continuatrice Donatella, il tomo si propone a tutti gli effetti come un portagioie – meglio sarebbe dire uno scrigno – bipartito, contenente quanto di più prezioso e lussuoso sia mai stato proposto sulle passerelle dalla coppia di creativi: perché quella di Versace, come è noto, non è mai stata e non è nemmeno oggi una proposta modesta o di modestia, e ogni capo, sia esso concepito come prêt-à-porter o come haute couture, rivela sempre un quid di prepotente esaltazione. Che si tratti di tagli o di drappeggi, di lunghezze o di proporzioni, di stampe o di applicazioni, di colori o di materiali (il già citato metal mesh, ma anche la seta, la pelle, la pelliccia, le piume), la quintessenza del marchio della Medusa (omaggio, questo, alla terra natale e alla sua cultura magno greca) non intende mai lasciare indifferente chi lo indossa e chi lo osserva, senza temere lo scandalo e anzi con la capacità di entrare con orgoglio negli annali di settore proprio come conseguenza di outfit talora estremi. Non è un caso, difatti, che quando il mondo della moda usa l’espressione “QUEL vestito” si stia riferendo proprio a un modello Versace ben preciso, ovvero alla versione leggermente più castigata del capo di punta della collezione Primavera/Estate del prêt-à-porter 1994, ovvero «un abito a colonna di tessuto tagliato in sbieco e aperto avanti e dietro, tenuto insieme da una manciata di spille da balia dorate». Una proposta al limite del cedimento equivoco, che sette mesi dopo il suo debutto, e per la gioia dei flash radunati, venne scelta da Elizabeth Hurley, al tempo compagna di Hugh Grant, per il red carpet londinese della prima del film Quattro matrimoni e un funerale; un primato di prepotenza sexy al limite del punk, del fetish e del buon gusto recentemente eguagliato solo da un'altra creazione Versace, ovvero l’incredibile jungle dress della collezione prêt-à-porter Primavera/Estate 2000 portato alla gloria per ben due volte da Jennifer Lopez, che lo scelse per la cerimonia dei Grammy Awards nel febbraio di quell’anno e che di nuovo lo celebrò sfilando in chiusura dello show per la presentazione del prêt-à-porter Primavera/Estate 2020. Risultato: un’ennesima candidatura nella Fashion Hall of Infamy, senza dimenticare il contributo alla fortuna aurorale di Google Images proprio per le innumerevoli ricerche sul web di quella mise.


Di tutti i volumi finora pubblicati all’interno della collana, questo dedicato a Versace è forse quello che più si avvantaggia della presenza illuminante dei testi di commento, che oltre a rendere conto delle scelte operate per la messa a punto delle singole collezioni contribuiscono a sottrarre il marchio alle semplificazioni frettolose a cui, non conoscendolo a fondo, sarebbe facile ridurlo. Tim Banks aiuta a comprendere le scelte della maison nella loro complessità, mettendo in luce come tutti gli aspetti più spiccatamente rivoluzionari, edonistici, riottosi e trasgressivi, così efficaci per smascherare lo snobismo dei critici e la loro innata predilezione per il bon chic bon genre, siano sempre stati animati, oltre che dal gusto per gli eccessi e il sensazionalismo, da un amore profondo per la cultura, le arti visive e quelle performative. Non vanno difatti dimenticate, a questo proposito, le collaborazioni con il teatro, l’opera lirica e il balletto, oltre alle importanti mostre che furono dedicate al lavoro di Gianni quando era ancora in vita (la retrospettiva allestita nel 1997, anno della morte, dal Costume Institute del Metropolitan Museum of Art di New York, fu il semplice suggello di un amore antico, ricambiato indipendentemente dall’estremismo delle circostanze). E lo stesso vale per la collaborazione ventennale con il fotografo Richard Avedon, che tanta parte avrà nel rendere riconoscibile l’identità Versace in ogni campagna pubblicitaria.


Storia di riscatto da una provincia conservatrice, decaduta e dimenticata (epperò orgogliosamente omaggiata nel simbolo della figura mitologica anguicrinita e dallo sguardo “minerale”), quella dei Versace, figli di un venditore di elettrodomestici e di una sarta affermata, è un’epopea fatta di alti e bassi superlativi, e dunque di altissimi e bassissimi, che trova la sua cifra nella sfida dell’ortodossia e nella ricerca di ciò che è dissonante, asimmetrico, imperfetto ma anche esagerato, eccessivo, strepitoso. Senza tuttavia troppo insistere sugli aspetti tragici e drammatici legati alla vita privata dei membri della famiglia – l’omicidio di Gianni per mano di un killer psicopatico fu non solo una notizia di cronaca nera da prima pagina, ma un vero e proprio shock di portata mondiale, e la stessa tossicodipendenza di Donatella è stata molto chiacchierata – l’autore commenta le collezioni senza partigianerie e senza tacere l’esistenza di “momenti NO”, ovvero eventuali reazioni perplesse da parte della stampa, indizi e spie di crisi creative, segnali di aggiornamento o allineamento con tendenze diametralmente opposte allo spirito della griffe (l’avvento del minimalismo nonché di una femminilità e di un erotismo declinati in chiave più celebrale da parte, per esempio, di un marchio come Prada, fu una rivoluzione non da poco e potenzialmente letale per uno stile magniloquente e sfacciato come quello di Versace, che già con Giorgio Armani combatteva una battaglia animata da una storica “rivalità”). Eppure, al netto di qualche scivolone (se non di qualche caduta), l’impresa si ripete vincente da decenni e decenni: per usare le parole di Donatella, «muori e rinasci, muori e rinasci. È la storia della mia vita».


Chi, confortevolmente animato da compiaciuta sobrietà, crede che la proposta “classica, seducente e letale” della Medusa non faccia al caso suo – “importabile” è l’aggettivo con cui di solito si liquida tutto ciò che viene giudicato al contempo troppo costoso e troppo chiassoso – si ricrederà sfogliando queste pagine (e ne avrà tutto il tempo, dato che sono più di 600). Ma questo non perché le creazioni di Gianni prima e di Donatella poi gli si riveleranno all’improvviso più accessibili e modeste del solito o meno “sopra le righe” rispetto a quell’energia così spiccatamente sensuale e sessuale che ha sempre caratterizzato e ancora oggi caratterizza ogni uscita in passerella. Al contrario, queste peculiarità saranno più evidenti che mai, ripetutamente ribadite, evidenziate, sottolineate dai testi e dalle immagini, e sarà dunque proprio nella comprensione e nell’accettazione di quella forza e di quello slancio che gli sarà possibile riappacificarsi con il significato più puro del marchio. Così, per tornare a quella luce di copertina da cui questo commento ha avuto inizio, la morale che si trae è tra le più semplici e tra le più sagge, perché se è del tutto inutile prendersela con ciò che brilla incolpandolo della sua intrinseca brillantezza, molto più utile è osservarlo alla giusta distanza e attraverso il giusto filtro. Provare per credere: anche chi non sa, non vuole o non può riconoscersi in tanta preziosità, potrà fare tesoro di una delle molte lezioni che la moda insegna e ama insegnare.
 
Cecilia Mariani