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"Crede nella bellezza e nella tecnica della pittura, in totale controtendenza col suo tempo": Elena Pontiggia racconta "Gli anni quaranta" di Giorgio de Chirico

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Giorgio de Chirico.
Gli anni quaranta. La metafisica della natura, il teatro della pittura

di Elena Pontiggia
La nave di Teseo, 2021

pp. 378
€ 28,00 (cartaceo)


Non c’è artista, al netto delle ovvie quanto rare eccezioni, che non si auguri di ottenere plauso e successo da parte del pubblico, della critica e del mercato. Ad alcuni capita, ad altri no. Così, mentre ci sono firme a cui nemmeno la morte fa seguire il contrappasso tardivo di un ripensamento di gusto (seppur speculativo e malfidato) o di un ripescaggio tra gli eletti (comunque fuori tempo massimo), altre conoscono già in vita, addirittura agli esordi o giù di lì, le delizie e le croci del trionfo e della consacrazione. Sono, queste ultime figure, quelle quasi sempre destinate a fare la storia e a finire nei rispettivi libri, ma non, si badi bene, senza pagare a propria volta pegno. Perché proporsi, esprimersi, distinguersi, imporsi – e dunque farsi ammirare, ricordare, desiderare e acquistare – è una di quelle sorti che fa pareggiare vantaggi e svantaggi, e che a seconda dei casi può trasformarsi nell’implicita condanna a un eterno ritorno di se stessi: si è diventati “qualcuno” che fa “qualcosa”, ed è esattamente quel qualcuno e quel qualcosa che il proprio seguito vorrà e pretenderà sempre (o almeno per un bel po’ di tempo), pena la delusione, l’incomprensione e il boicottaggio dei più.

Esattamente questo è ciò che accadde nel secolo scorso a un pittore – anzi a un Pictor Optimus – come Giorgio de Chirico (1888-1978), a cui gli anni quaranta riservarono un’eco di stonature, dissonanze, cacofonie e fischi da parte dei seguaci della prima ora, incapaci di accettare e di perdonare considerevoli variazioni di tono e di stile a colui che aveva dato il colpo di diapason decisivo alla pittura metafisica. Proprio a tale controverso decennio della carriera dechirichiana, caratterizzato da grandi fraintendimenti ma anche da grandi, sebbene sporadici, apprezzamenti (perlopiù fuori dall’Italia), è adesso dedicato un meticoloso studio di Elena Pontiggia appena pubblicato da La nave di Teseo, che già nel sottotitolo (La metafisica della natura, il teatro della pittura) rivela come il maestro, in realtà, non avesse affatto tradito le sue premesse iniziali, ma anzi avesse continuato a portare avanti la sua ricerca e costruzione di una più interessante realtà attraverso una magnifica ossessione per la materia e la maniera pittorica, un personalissimo dialogo citazionista con i grandi del passato e una rinnovata e peculiare attenzione per i generi del ritratto e dell’autoritratto, i paesaggi, le scene equestri e le nature morte (per lui sempre “vite silenti”). Scelte, queste, solo apparentemente conservatrici e contraddittorie rispetto alle prove precedenti, e in cui il barocchismo, la teatralità, la finzione e il rimando a opere capitali della storia dell’arte e a nomi come Rubens, Van Dyck, Velàzquez, Ingres e Delacroix appaiono animati da uno spirito che è possibile definire postmoderno ante litteram. Scelte non comprese e non accettate dai diretti contemporanei, pronti a liquidare con violenza e ferocia da linciaggio non solo l’opera dechirichiana ma il suo stesso artefice, che fu ripetutamente bersaglio di attacchi personali al vetriolo:

«esecutore di croste, di viscidume, di tetro e stucchevole ciarpame; pittore mediocre, goffo, fiacco, scialbo, biaccoso, falso; mestierante oleografico, mistificatorio, irritante, istrionico, fallito, putrefatto; illustratore da taverna, professore di scuola media, buono per il teatro dei pupi, le botteghe del rigattiere, i vassoi, le testate dei letti, le figurine Liebig, i calendari dei barbieri; autore di una retorica da parvenu, di una pittorella decorativa a uso dei borghesi, dei banchieri internazionali, dei compratori dei Parioli, degli industriali di Busto Arsizio; artista che vende l’anima al diavolo, degenerato, volgare, reazionario, repellente, nemico dell’umanità, nato per piacere a Ojetti, anzi a Goebbels» (pp. 29-30).

Suddiviso in due sezioni principali – la prima: l’ampio saggio dell’autrice articolato in sette capitoli; la seconda: gli apparati critici comprensivi di cronologia (settembre 1939-dicembre 1949), indice delle immagini, indice dei nomi, riferimenti bibliografici agli scritti di de Chirico (1940-1949), a quelli su di lui (novembre 1939-dicembre 1949) e a quelli su di lui citati nel testo (1950-2021) – il lavoro di Pontiggia osserva attraverso la lente di ingrandimento un periodo che fu di cesura e di cerniera non solo per l’artista singolarmente inteso, ma per tutta l’arte e la cultura coeva, con il secondo conflitto mondiale e l’immediato dopoguerra a fare da bilancia per gli equilibri politici, economici e sociali. Per raccontare il pittore nel corso del suo decennio più complicato l’autrice sceglie di porsi dichiaratamente e programmaticamente oltre la logica dei confronti e delle graduatorie, e dunque rifiutando fin da principio di cadere nella trappola interpretativa del “prima” e del “dopo” per seguire, invece, la via più soddisfacente (e per così dire “termodinamica”) dell’evoluzione, del processo, della trasformazione, del continuum. È in questo senso che il già citato sottotitolo dell’opera è altamente rivelatore: parlare di “metafisica della natura” significa suggerire come per de Chirico il rimando a una realtà ulteriore non fosse certo venuto meno nonostante la rarefazione di soggetti divenuti iconici come piazze deserte e manichini, ora sostituiti da temi e soggetti meno stranianti e caratterizzati da un altro tipo di riconoscibilità; mentre l’espressione “teatro della pittura”, a sua volta, sta a significare come l’attenzione del Pictor Optimus per il metodo fosse funzionale a dipingere con esuberanza e sfoggio di tecnica una realtà intesa sempre e comunque all’insegna della messa in scena; una realtà ideale, creata attraverso l’irrealtà del mascheramento, e dunque, come tale, una nuova forma di meta-fisica. Scrive Pontiggia nella sua Introduzione:

«i misteri, i presagi, le rivelazioni filosofiche che permeavano la metafisica sono apparentemente – repliche a parte – un capitolo chiuso e de Chirico dà vita a figure sontuose e fantastiche, a visioni che si possono definire “barocche” sia per i maestri a cui si ispira sia per l’ambientazione teatrale che le accompagna. Ma su quest’ultimo concetto è necessario soffermarci, anche per scoprire che il teatro dechirichiano non coincide con una vuota teatralità, come all’epoca venne interpretato, ma con una nuova forma di realtà. Cioè con una “realtà” non realistica, un’esistenza ideale, un’immagine che sembra verosimile ma va al di là delle apparenze della vita (…) Siamo dunque, ancora una volta, di fronte a un oltre, a una meta-fisica, anche se ben diversa da quella dei manichini, perché composta da elementi (figure, cavalli, frutti, paesaggi) a prima vista naturali. In fondo, quando l’artista proclamava che non c’erano stagioni nella sua pittura, aveva ragione. Nelle sue opere cambiano la fisionomia e lo stile, non la dimensione di un altrove che traspare anche nei quadri “rubensiani” e “romantici”» (p. 18).

La studiosa segue dunque de Chirico anno per anno (più esattamente, a partire dal 1938), lo fiancheggia lungo le numerose tappe di un cammino tutt’altro che lineare e monotono – fatto di quadri, sculture, illustrazioni, esperimenti tecnici, falsi in circolazione, teorizzazioni, mostre in Italia e all’estero, critiche più negative che positive, polemiche in forma orale e in forma scritta, accuse e difese, invettive e controversie, cambi di residenza (da Parigi a Firenze, da Firenze a Roma) e punti di riferimento nel proprio credo artistico – e così facendo lo trova sempre intento al compimento di quella che gli si impone come una missione personale, un dovere dell’anima, una vocazione non troppo diversa da una chiamata di tipo religioso: tentare, attraverso la pittura, di infondere bellezza e perfezione a un mondo che gli appare sempre più “dimesso, banale, difettoso”; per non parlare del sistema dell’arte contemporanea, che suo avviso «è dominato da critici, mercanti, collezionisti che non sono più aristocratici come un tempo, ma borghesi incolti, e per contro è intriso di un intellettualismo che sostituisce la pseudofilosofia alla capacità di dipingere» (p. 116). Senza mai dimenticare ciò che accade nel contempo in Italia, Europa e Stati Uniti, e ovviamente marcando la differenza e/o l’indifferenza dechirichiana nei confronti delle ricerche informali, astrattiste, realiste, espressioniste, postcubiste e surrealiste, Pontiggia spiega punto per punto le ragioni di una posizione così a sé come quella del pittore, estraneo alla scena italiana nel suo essere tutto teso a produrre un’arte di per sé “buona” e il cui valore risieda nella maestria dell’artista; e lo fa con un’argomentazione che cede spesso la parola proprio a de Chirico senza tuttavia negarne anche i fisiologici cali di forma, stile e ispirazione avuti nel corso del decennio, o tutti gli atteggiamenti che hanno contribuito a creare e poi esasperare la vulgata di un uomo «rissoso, volubile, inaffidabile, in lite con il mondo intero» (p. 205). 

Giorgio de Chirico. Gli anni quaranta è un libro che non può mancare nelle librerie dei cultori e degli studiosi del Pictor Optimus e del Novecento artistico italiano e internazionale: l’interpretazione critica inedita, così ben espressa in una prosa chiara e scorrevole, è, peraltro, perfettamente complementare all’oggettività dei contenuti offerti nella sezione dedicata agli apparati, ricchissima, come si è detto, di dati, riferimenti e strumenti di consultazione rapida (senza dimenticare la varietà di riproduzioni in catalogo, le quali, sebbene non esaustive, annunciano una futura mostra presso Palazzo Pallavicini a Bologna dedicata proprio alla pittura del periodo in esame). Ha dunque ragione Paolo Picozza, Presidente della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico (partner del progetto editoriale), quando nel suo intervento prefatorio definisce il lavoro dell’autrice «un punto di arrivo atteso da oltre vent’anni» (p. 9), capace di esorcizzare gli spettri del malinteso e di emancipare finalmente l’artista da decenni di letture influenzate da mitologie e manicheismi:

«Elena Pontiggia si pone tra gli obiettivi, realizzandolo magistralmente, quello di liberare l’artista dalle “classifiche” di valore tra i suoi periodi, nel cui accanimento tanti critici hanno smarrito il senso di un’indagine con sguardo scevro da pregiudizi e alimentato così da equivoci altrimenti evitabili. Merito invero straordinario è dunque quello di replicare quasi l’operazione effettuata da de Chirico: una sorta di sospensione da un giudizio viziato da ciò che è venuto prima e da ciò che seguirà. Uno sforzo notevole di guardare all’opera dechirichiana con apertura critica e occhi nuovi, proprio come il Maestro da nuovi appassionanti esperimenti tecnici, e consequenzialmente torici, era tutto preso nel decennio in questione» (p. 9).

Tuttavia, nonostante de Chirico sia uno degli artisti più popolari del secolo scorso, il volume pubblicato da La nave di Teseo (che già annovera in catalogo tre libri dell’artista – La casa del poeta, Memorie della mia vita, Ebdòmero – e tre monografie su di lui rispettivamente a firma di Riccardo Dottori, Fabio Benzi e Lorenzo Canova) si presta forse a un maggiore apprezzamento da parte di un pubblico di settore, o comunque già in possesso di conoscenze preliminari sulla materia. Se ciò accade non è certo per un’intenzionale esclusivismo dell’editore o dell’autrice, la cui prosa è felicemente scevra da accademismi settari, bensì per la specificità dell’argomento, che per essere compreso proprio nella raffinatezza dell’analisi che ne viene offerta necessita di buone basi da parte di chi legge. Ad ogni modo, se è pur sempre vero che i classici sono quelli che non hanno ancora finito di dire ciò che avevano da dire, l’esempio dechirichiano si conferma in questo volume in tutta la sua attualità: non solo perché testimonia quanto sia ancora vivo il dibattito a riguardo, ma perché la vicenda dell’artista, compresa attraverso questa nuova chiave di lettura, è una prova di quell’autonomia di pensiero e di quella libertà di espressione che sempre tendono a latitare nei periodi in cui sarebbe più comodo lasciarsi portare o trascinare dalle correnti delle mode e delle tendenze. Credendo nella bellezza e nella tecnica della pittura, in totale controtendenza con il suo tempo, il de Chirico degli anni quaranta ha dato una lezione di ostinata volontà di autodeterminazione a chi lo avrebbe voluto sempre uguale a se stesso o più artatamente mimetico; una lezione di cui chiunque, arte o non arte, può, ancora oggi, fare tesoro.  
 

Cecilia Mariani