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"Sono vecchia, ma sono morta giovane": una graphic biography di Valentina Grande e Sergio Varbella omaggia il "Bauhaus. L'idea che ha cambiato il mondo"

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Bauhaus.
L’idea che ha cambiato il mondo

illustrazioni di Sergio Varbella
testi di Valentina Grande
Centauria, 2021

pp. 128
€ 19,90 (cartaceo)

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Un complesso architettonico che parla. No, non siamo immersi in atmosfere vagamente horror o comunque fantastiche, anche se l’identità dell’edificio in questione è di quelle capaci di suscitare, da una parte, i “vade retro!” più esorcistici, con tanto di indici incrociati a mo’ di ics, e dall’altra, viceversa, le estasi più mistiche e le genuflessioni più zelanti. Stiamo parlando del Bauhaus, la mitica scuola sorta in terra di Germania nel primo dopoguerra e che, piaccia o non piaccia, ha modificato per sempre il nostro modo di vivere e di abitare, di relazionarci con gli spazi e con gli oggetti. E difatti è proprio Lei, Essa, in fondamenta, strutture portanti e coperture, che nell’omonima graphic biography realizzata a quattro mani da Valentina Grande (testi) e Sergio Varbella (illustrazioni) prende la parola e racconta la propria storia (che, per citare il sottotitolo, è la storia di un'idea che ha cambiato il mondo). Direttamente da Weimar, Dessau e Berlino, le città in cui ebbe sede – rispettivamente dal 1919 al 1925, dal 1925 al 1932 e dal 1932 al 1933 (un rapido epilogo, quest'ultimo, in cui, rifiutando di aderire all’ascendente nazismo, non fece in tempo ad aprire che subito cessò ogni attività) – l’istituto/istituzione rievoca nascita, crescita e morte di se stessa attraverso una parabola che dalla genesi conduce alla nemesi: quella che, a riscatto di una “morte” prematura da intendersi come “suicidio” per un ideale, si esprime ancora oggi in una profondissima influenza sull’arte, sull’architettura e sul design e nella consacrazione museale del Bauhaus Archiv, sorto nella capitale tedesca lungo il Landerwehrkanal, all’interno del quartiere Tiergarten.

Dopo l’ultima uscita incentrata sull’avanguardia surrealista, la collana dedicata da Centauria ai grandi artisti e ai grandi movimenti artistici del Novecento si arricchisce di un nuovo ambizioso volume in cui l’artificio retorico di fondo è perfettamente coerente con lo spirito del Bauhaus stesso: quale migliore strategia per evidenziare il protagonismo della scuola se non quella di affidarle il ruolo di voce narrante? Una scelta che si rivela efficace soprattutto se si tiene conto del grande viavai di personalità di spicco che vi si alternarono alla direzione – da Walter Gropius a Hannes Meyer a Ludwig Mies van der Rohe – e nel corpo docente, di cui, tra gli altri, fecero parte Johannes Itten, Paul Klee, Theo van Doesburg, Vasily Kandinsky, Josef Albers, Marcel Breuer, László Moholy-Nagy, Oskar Schlemmer, Lyonel Feininger e Georg Muche. Privilegiare uno solo tra questi eccezionali protagonisti degli anni Venti avrebbe evidentemente comportato una visione parziale, mentre dare voce a tutti avrebbe reso l’insieme discontinuo e dispersivo. Così è proprio la scuola, organismo più che mai vivente, a tenere le fila del racconto e a cedere il turno ai suoi animatori quando necessario, mettendone in luce quelle opinioni, visioni e impostazioni (anche politiche) non sempre concordi, da cui negli anni derivarono defezioni clamorose, nuovi arruolamenti, svolte radicali: una soluzione efficace, che rende giustizia al dinamismo sempre rivoluzionario che ne caratterizzò l’iter, e che rimarca in ogni tavola l’importanza dei luoghi in cui questa stessa rivoluzione ebbe modo di esprimersi e accadere. Una decisione che del resto ben si raccorda con la dedica finale della stessa Valentina Grande: «questo è un libro che racconta di una scuola», scrive l’autrice dei testi, «ed è anche la celebrazione del fare bene scuola e di quanto possa cambiare la vita delle persone» (p. 127).

Parlare di una realtà come quella del Bauhaus attraverso immagini “di secondo grado” comporta un doveroso tributo visivo rispetto a ciò che la scuola ebbe modo di essere sia a livello architettonico sia a livello laboratoriale e produttivo: già dalla copertina – un omaggio a una celebre foto del corpo docente nel 1926, innestata su uno sfondo che riproduce l’edificio concepito da Gropius per la sede di Dessau – è come se Sergio Varbella annunciasse che le citazioni, nelle sue tavole a colori, saranno numerose e necessarie. E così è, difatti, dal momento che in più di un caso si assiste alla riproduzione fedele sia di famosissimi documenti d’epoca sia di quelli che furono i locali della scuola, i progetti più importanti che vi vennero sviluppati e alcuni tra gli oggetti e i complementi d’arredo ancora in produzione: la lampada da tavolo di Karl Jucker e Wilhelm Wagenfeld, la sedia “Wassily” di Marcel Breuer, il set di giochi in legno “Bauspiel” di Alma Siedhoff-Buscher, la poltrona “Barcelona” di Mies van der Rohe. E se a dir poco deliziosa è l’idea di riservare le pagine di apertura e di chiusura alla riproduzione dei costumi del Balletto Triadico (e senza genere) di Oskar Schlemmer – una miniaturizzazione delle sagome che le fa diventare una specie di pattern decorativo e di fregio continuo su fondo nero – sfogliando il volume ci si imbatte in più occasioni in tavole che, nello stile e nel soggetto, valorizzano la centralità dell’aspetto progettuale nella filosofia del Bauhaus, del suo desiderio di proiettare «uno sguardo funzionale e non decorativo verso tutti gli elementi abitativi» e di «spogliare gli oggetti di tutti gli orpelli per arrivare all’essenza di ogni cosa» (p. 121): ciò accade, per esempio, ogni volta che l’architettura viene resa protagonista della trattazione, per esempio quando si raccontano la genesi della Haus Am Horn, il prototipo della “casa del futuro”, o della sede di Dessau, pensata da Gropius come un organismo che “non aveva niente da nascondere”, con in più l’aggiunta di case singole per i professori e di alloggi prefabbricati per studenti e studentesse.

Nata delle intuizioni e dalle idee di Walter Gropius e forte di un corpo docente prevalentemente maschile, la scuola del Bauhaus ebbe un debito di non secondaria importanza anche nei confronti delle donne che ne occuparono le aule e i dormitori. Se il ritratto di gruppo in copertina mostra la condizione di schiacciante inferiorità numerica di Gunta Stölzl (la seconda da destra) – che fu a capo del laboratorio di tessitura e riuscì a trasformare un’arte minore e applicata in un settore innovativo, unendo telaio e tessitura manuale e sperimentando con materiali moderni – Grande e Varbella hanno giustamente voluto mettere in evidenza sia l’apertura democratica dei corsi alle studentesse sia l’eccezionalità della loro distinzione in ambiti che non coincidevano con quello tessile, a cui tutte loro venivano quasi automaticamente “dirottate” dopo il cosiddetto Vorkurs: mentre Annalise Fleishman, futura moglie di Josef Albers, diede il meglio di sé proprio in questo settore, in poche riuscirono a frequentare laboratori solitamente appannaggio maschile come quello di metallo, di falegnameria, di ceramica e di progettazione. Ma la stessa attenzione riservata all’aspetto ludico, con il generale clima di divertimento che raggiungeva l’apice nelle celebri feste della scuola, è parte integrante di una storia in cui l’abbattimento delle barriere tra le arti coincise con l’eliminazione di ogni cesura tra l’arte stessa e l’esistenza dei singoli individui oltre che con il trionfo di una sessualità non-normativa.

Libro necessariamente e coraggiosamente sintetico ma estremamente evocativo di una temperie, Bauhaus. L’idea che ha cambiato il mondo contiene l’invito esplicito ad approfondire il tema offrendo una bibliografia e una sitografia essenziali, rimandando a documentari e corredando le citazioni letterali inserite nel testo e nei dialoghi con riferimenti puntuali e dettagliati circa i libri da cui sono state tratte. E se è vero che più di un secolo è già trascorso dalla fondazione di questa celebre scuola, è altrettanto vero che per constatarne l’eredità e percepirne l’eco basta semplicemente guardarsi intorno e mettersi in ascolto (si vedano le ultime due pagine, dove, tra gli altri riferimenti, uno smartphone di un celebre marchio e un David Bowie/Ziggy Stardust che nel 1973 indossa l’iconico costume optical di dichiarata ispirazione “triadica” si dichiarano a vario titolo continuatori di un credo). Oltre ogni costosissimo oggetto e complemento d’arredo a cui spesso se ne riducono sia il nome che la nomea, oltre ogni sua citazione inopportuna per dotare le cose di un’aura o darsi un tono come persone, oltre ogni settarismo purista che annulla tutto ciò che non corrisponde ai suoi presunti diktat, il Bauhaus ricorda l’importanza di un cambiamento e di un rinnovamento di cui ci sarà sempre desiderio e bisogno, nonché il potere di quella libertà che sempre spaventa lo status quo:

«il Bauhaus è oltre me, vive in altro da me. Lasciate dietro di voi tante cose e noi siamo costrette a sopravvivervi, testimoni mute del tempo. Viviamo il dramma ontologico del persistere di generazione in generazione senza trovare riparo. Eppure io vivo ogni volta che un insegnante lascia libertà creativa. Che una designer pensa prima alla funzione e poi alla forma. Ogni volta che mettete in discussione il linguaggio e la grammatica. Io sono colori primati, sono la ricerca della libertà quando è scambiata per esibizionismo. Sono un graffito sui muri, sono persone che non vogliono essere normate. Sono costruzioni per l’infanzia e un palazzo di vetro. Io sono tra voi» (pp. 111-117).


Cecilia Mariani