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Un affresco corale della Sicilia degli anni Venti: "Al contrario" di Giuseppina Torregrossa

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Al contrario
di Giuseppina Torregrossa
Feltrinelli. 2021

pp. 306
€ 17,50 (cartaceo)
€ 11,99 (e-book)


Ce l'aveva con se stesso in quel momento. Ma perché pensava una cosa e ne faceva un'altra? La carriera universitaria era il suo sogno e invece si trovava a fare il medico condotto. Era socialista, ma gli piaceva Mussolini. Si era sposato una brava ragazza, ma passava da un'amante all'altra. Aveva fatto una figlia e quasi non ne conosceva il nome. (p. 32).
Insomma, il dottor Giustino Salonia è un uomo fatto un po' così, al contrario si direbbe. Anche fisicamente, cosa assai strana, come avrà modo di rendersi conto...
Corre l'anno 1927 e il dottor Salonia, giovane oculista all'ospedale di Palermo, si lascia convincere da un amico ad accettare il posto di medico condotto a Malavacata, feudo di Paternò, di proprietà della principessa Fernandez. Così parte, lasciando in città la bella moglie Gilda e Nennella, la figlioletta neonata. In realtà, appena arrivato in stazione, il dottore "subito capì di essere stato fregato" (p. 15) perché il feudo, parola molto ambiziosa, altro non è che un pugno di povere casupole nella Sicilia più profonda, dove le bestie sono molto più numerose degli umani (e tenute in maggior conto) e dove il sole, la polvere e le mosche fanno a gara a dannare gli uomini. Imbestialito con se stesso, "u dutturi" si appresta ad aprire il suo studio, faticando dapprincipio a scalzare la diffidenza dei poveri "viddani" abituati a convivere con le malattie e usi a rivolgersi a qualche praticone del paese. 
Se l'inizio del romanzo ha un che di spassoso e può avvicinarsi ai vivaci affreschi di paese di un Andrea Vitali del Sud, l'autrice ci mette poco a cambiare registro e a trasmetterci, in maniera iconica e incisiva, l'immagine tipica di un villaggio dell'entroterra siciliano degli anni Venti-Trenta del secolo scorso, nel quale la convivenza tra animali e uomini sotto lo stesso tetto, causa primaria di malattie, prima fra tutte il tracoma (gli occhi ruvidi, nel dialetto popolare), il sole a picco che cade impietoso sulle povere case sbiancate di calce, la povertà, il puzzo delle capre che diventa lo stesso delle persone, il sudore, la fatica, il lavoro sfiancante, la prepotenza dei potenti, l'ignoranza che si dà a braccetto con la superstizione ricordano molto da vicino certe indimenticabili pagine del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. 
Dall'arrivo in paese del nuovo medico condotto, a cui si aggiungerà la moglie Gilda, rassegnata al suo destino, ma mai doma, passerà sul palcoscenico del romanzo una miriade di figurine animate: dal sensale infido Ignazio a Filomena, la levatrice intraprendente, dal federale fascista, don Ettore, che rappresenta, in maniera autocompiaciuta e quasi buffonesca, il potere al comando, alla "bardascia" Annicchia, la prostituta del paese, dal capostazione Adelasio, unico tramite del paesello con il mondo esterno, a Donna Sisina, la "sattura", l'esattrice delle tasse. Sta proprio in questa sfilata di personaggi il vero punto forte del romanzo, che sa farsi corale nel vero senso della parola. Nell'Italia dei podestà, delle corriere, delle biciclette, del grano, delle bottegucce, della terra da coltivare e rispettare passa tutta la vita del Novecento rurale. E se fino alla fine degli anni Trenta è il tempo degli uomini (titolo della prima parte del libro), lo scoppio della Seconda Guerra mondiale diventerà il tempo delle donne che dovranno fare anche la parte dei mariti al fronte per mandare avanti l'economia della casa e del paese. E scopriranno che anche senza "masculi" si può vivere, si renderanno conto che la forza delle donne sta nella comunione d'intenti, nello stare insieme, unite per un obiettivo comune: la sopravvivenza per sé e per la propria prole. Finché il bisogno fa da collante.
"È inutile, le fimmine stanno bene insieme quando sono tra di loro ma, appena vedono un paio di calzoni, si prendono a muzzicuna" (p. 301)
riflette sconsolata Concetta, l'amante del "dottoruzzo", una volta terminata la guerra e finito il tempo delle donne. Un momento che rappresenta una sorta di Eden, se non fosse per la piaga della guerra, che, per fortuna, tocca il paese soltanto di striscio, un mondo in cui le cose, forse, potrebbero anche andare meglio.
Tante le pagine succose e piacevoli di questa storia ben raccontata e ben costruite le figure dei protagonisti, Giustino e la moglie Gilda. Anche se in questo romanzo è proprio la coralità che vince, la voce del popolo quella che si leva sovrana. Grazie anche alla lingua, infarcita di espressioni dialettali, che, se a volte risultano un po' ostiche da comprendere per lettori non siciliani, d'altra parte non potrebbero essere più appropriate per i personaggi che solo quella lingua, e non altra, potrebbero parlare.
Giuseppina Torregrossa, muovendosi a proprio agio nelle pieghe del suo universo narrativo che è quello della sua terra tanto amata, riesce così a restituirci il vero volto di una Sicilia "terragna", lontana dal mare, l'altra faccia della luna rispetto a quella Sicilia che tanta parte degli scaffali delle librerie ormai da tempo occupa. Una terra antica ricca di grano, di ulivi, di viti, ma arroventata dal sole, dura da lavorare che guai se non ci fossero le bestie, la cui vita vale più degli uomini stessi.
Piccola nota a margine: il mondo dei bambini, duro anch'esso e tutt'altro che facile, viene raccontato dalla Torregrossa con grande calore e partecipazione. Sono tanti i figli che popolano quelle contrade, ogni donna ne dà alla luce cinque, sei e anche più. Crescono in fretta per strada, insieme agli altri, in un contesto che li richiede ben presto adulti, e quindi abili al lavoro. Ma sono pur sempre "picciutteddi" e la fantasia, talvolta, è ciò che li aiuta a salvarsi.
Sabrina Miglio