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"Un'infinità tascabile, l'oceano rinchiuso nella più banale delle conchigliette": Domitilla Dardi e Bartolomeo Pietromarchi ci invitano a "Casa Balla"

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Casa Balla.
Dalla casa all’universo e ritorno
a cura di Domitilla Dardi e Bartolomeo Pietromarchi
Marsilio, 2021

pp. 216
€ 30,00 (cartaceo)

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Esattamente un secolo fa, proprio nel 1921, la città di Roma inaugurava uno dei suoi primi cabaret, ovvero quel futuristico “Bal Tik Tak” la cui fortuna avrebbe potuto eguagliare il ben più longevo “Voltaire” zurighese se la chiusura non avesse fatto seguito a pochi mesi dal primo cin cin. Avanguardista dal pavimento al soffitto, dall’uscio agli infissi, il locale notturno in via Milano era un capolavoro di coerenza stilistica, con arredamento, suppellettili, illuminazione e insegne a cura di Giacomo Balla (che peraltro ne aveva scelto anche il nome di battesimo). L’autore del manifesto Ricostruzione futurista dell’universo (1915), firmato insieme con Fortunato Depero, non era peraltro nuovo a questo genere di cimenti: già negli anni tra il 1912 e il 1914 aveva lasciato tracce del suo tocco persino in Germania, a Düsseldorf, nella casa dell’avvocato Arthur Löwenstein e della consorte Margherita Speyr, e poi, di nuovo in Italia, sarebbe stato in Sicilia, a Terme Vigliatore, nel villino Mamertino del poeta sodale Guglielmo Jannelli, per il quale avrebbe disegnato il mobilio a partire dalle lettere del cognome. Ma gli autentici banchi di prova per le sue doti di pioneristico designer d’interni non furono in realtà né locali di ritrovo pubblico né abitazioni altrui: gli ambienti in cui Balla poté davvero dare mostra dei suoi talenti di scenografo, pittore, scultore e artefice tout court con soluzioni perfettamente in ensamble furono – evidentemente, e in primis – le sue due dimore private nella Capitale.

Foto di Cecilia Mariani
A queste, ma in particolare a quella di via Oslavia, nel quartiere della Vittoria, in cui si trasferì e visse dal 1929 fino alla morte, è dedicato il progetto Casa Balla. Dalla casa all’universo e ritorno, curato per il Museo MAXXI da Domitilla Dardi e Bartolomeo Pietromarchi. Un lavoro ambizioso che finalmente, dopo anni di recupero e restauro, non solo riapre l’appartamento al quarto piano del civico 39/B rendendolo visitabile per piccoli gruppi ogni fine settimana, ma lo fa dialogare idealmente con una serie di opere concepite per l’occasione, esposte nello spazio Galleria5 del museo romano. In questa sede, difatti, i disegni, i bozzetti, gli oggetti, i complementi d’arredo e i mobili realizzati da Balla si trovano esposti e messi a confronto con i lavori di Carlo Benvenuto, Alex Cecchetti, Emiliano Maggi, Leonardo Sonnoli, Space Popular, Jim Lambie, Ila Bêka & Louise Lemoine e Cassina con Patricia Urquiola; una selezione di artisti e artiste ad hoc, dunque, la cui affinità elettiva nei confronti del maestro futurista si manifesta a livello tanto estetico quanto concettuale. E bellissimo, nella sua ricchezza di contenuti fotografici e testuali, è anche il catalogo pubblicato da Marsilio, che ai contributi di Dardi e Pietromarchi affianca quello “libero” di Emanuele Trevi (“Tutte le sostanze sgargiantissime”. Casa Balla e dintorni) e quelli di taglio più tecnico e critico a firma di Eleonora Farina (sono sue le schede di commento delle opere in allestimento), Fabio Benzi (Giacomo Balla: l’invenzione dell’universo futurista), Elena Gigli (Le signorine e Giacomo Balla: presenze del presente) e Jack Clemente (Giacomo Balla et le futurisme).

Foto di Cecilia Mariani
Pur non potendosi sostituire alla visita effettiva della casa e della mostra, l’assortimento dei materiali in catalogo si rivela di grande utilità per il lettore che si trovi impossibilitato a un sopralluogo. Aprendo una pluralità di varchi d’ingresso all’universo esistenziale ed estetico di Balla, i testi accompagnati dagli apparati fotografici (a colori e in bianco/nero) riescono difatti a restituirne con efficacia sia l’atmosfera bifronte e inscindibile di “casa e bottega”, sia il presupposto artistico totalizzante; una narrazione implicitamente coinvolgente, dunque, in qualche modo “contagiata” dal senso di intimità che per tradizione si addice al campo semantico domestico. E forse è per questo che pare quasi di condividere il rammarico della famiglia Balla quando nel 1926 venne costretta ad abbandonare l’amato villino al civico 2 di via Nicolò Porpora, vicino al Parco dei Daini di Villa Borghese, in cui abitava stabilmente dal 1904: un vero peccato spegnere quel primo focolare, che già acceso, scaldato e illuminato dalla fiamma del fuoco futurista e addirittura opportunamente aperto al pubblico dal 1919, veniva adesso destinato alla demolizione per fare spazio agli immobili del moderno quartiere Pinciano. Certo, contrariamente a quanto recita il vecchio adagio, in quel momento a Balla parve davvero che si chiudesse un portone (quello “distinto” della villa) e si aprisse una porticina (quella “ordinaria” della palazzina impiegatizia), ma l’addio ai Parioli e l’arrivo al quartiere della Vittoria furono una sfida assai stimolante per l’artista – nelle parole di Emanuele Trevi «una svolta di tipo psicologico» (p. 59) –, dal momento che proprio nella nuova casa (che fu parimenti teatro dell’attività delle due figlie Elica e Luce, pittrice l’una e ricamatrice l’altra) sarebbe riuscito a dimostrare negli anni l’esattezza di un altro proverbio, ovvero quello che ricorda la natura ingannevole delle apparenze: perché come nota Domitilla Dardi, «da fuori, dietro la facciata di un tipico palazzo borghese in quello che oggi è diventato uno dei tanti centri di Roma, pochi sospettano che batta un cuore futurista, fragile e di latta, fatto di fili e colori, ma potente come l’indipendenza» (p. 44).

Foto di Cecilia Mariani
Se le parole di Bartolomeo Pietromarchi rendono giustizia a quella sperimentazione perpetua che è la vera inquilina onoraria di Casa Balla – definita «un vortice di invenzioni, decorazioni e trasformazioni che investono pareti, soffitti, pavimenti, arredi, suppellettili, strumenti, indumenti, tappezzerie» oltre che «una fucina permanente di produzioni di artefatti» (p. 33) – il discorso di Domitilla Dardi si focalizza sul modo in cui l’eredità ideale e fattiva del maestro futurista sia stata raccolta dalle neoavanguardie del design contemporaneo a partire dagli anni Settanta del Novecento: da Alchimia e da Memphis, innanzitutto, e nelle figure dei vari Munari, Mari, Mendini, Sottsass, De Lucchi, Branzi. E si capisce già dal titolo del testo in catalogo, che cita non a caso proprio La casa calda (1984) di Andrea Branzi, come l’opposizione alla freddezza del razionalismo modernista e del funzionalismo industrializzato si esprima nel caso di Balla in un tipo di lusso dato dal superamento tra arti maggiori e arti minori, dal mix tutto artigianale, unico ed esclusivo di colori, forme, intersezioni, sovrapposizioni, incastri di elementi portanti e decorativi, e non da ultimo dall’utilizzo e dal riuso di materiali effimeri, poveri, di facile reperimento e degradazione.

Foto di Cecilia Mariani
In linea con il successo coevo delle varie case d’arte – quella di Depero a Rovereto, quella di Bragaglia a Roma – anche l’operare domestico di Balla appare in contrasto con quel mito della macchina che ancora non aveva trovato in Italia una vera applicazione di tipo industriale. L’artista è così portato a sperimentare invenzioni e soluzioni straordinarie tra quattro mura che davvero diventano sede di un workshop perenne, contemporaneamente il centro del proprio mondo e il punto di partenza per ricostruire l’intero universo: uno spazio nuovo, in cui si gravita in assenza di gerarchie tra strutture e rivestimenti, supporti e decorazioni, e in cui vige «una valenza emotiva dei beni materiali che sfiora l’animismo e si concentra sulla relazione tra uomo e cose, riconoscendo a queste ultime il diritto alla decorazione, al divertimento, ma anche all’irriverenza, alla personalità pungente» (p. 36). È ciò che si definisce «l’unità dell’ambiente, l’avverarsi della vera Gesamtkunstwerk in una versione che nessuno mai, prima di allora, aveva neanche osato pensare» (p. 41); ed è dunque una delle migliori espressioni di quell’arte “totale” intesa come Ricostruzione futurista dell’universo su cui anche Fabio Benzi insiste nel suo intervento:
«si allargava a dismisura il ventaglio delle applicazioni futuriste, indagando ogni aspetto della produzione artistica, coinvolgendo non solo le arti visive, potremmo dire statiche, come architettura, ceramica, mobilio, vetrate, mosaici, arte monumentale, arazzi, grafica, moda, fotografia, scenografia ecc., ma proiettandosi anche sulle discipline “dinamiche”, come cinema, danza, recitazione e performance» (p. 117).

Foto di Cecilia Mariani

Per nulla “in più” nell’economia di un catalogo che si sarebbe potuto accontentare di saggi e apparati a firma degli addetti ai lavori è anche il bel contributo di Emanuele Trevi, in cui le riflessioni indigene del flâneur romano fanno il paio con i parallelismi letterari nella ricerca felice di definizioni squisitissime per il caso in esame. Nel paragonare la Roma di Balla alla Mosca di Bulgakov lo scrittore si dice difatti convinto che quello che c’è dentro quel magico appartamento sia «innanzitutto un disorientamento di tipo spaziale, un’infinità tascabile, l’oceano rinchiuso nella più banale delle conchigliette» (p. 52): per questo il suo valore ha la durata infinita di un moto spiraleggiante, e per questo è forza che non si esaurisce ma che ancora si trasforma, pur vuota di inquilini ma ancora abitata dalla presenza carismatica dei suoi ultimi proprietari e custodi. Casa Balla, dice bene l’autore, «non è più né un documento né un monumento, ma l’immagine evidente e tridimensionale della mente che l’ha abitata e nello stesso tempo immaginata» (p. 60), e proprio per questo «la sua rovina non ha nulla di museale. È una rovina viva, ovvero una di quelle rarissime rovine che sembrano arrivare a noi dal futuro: come se avesse sbagliato strada e fatto il giro più lungo» (p. 60).

Con parole che riescono a chiamare ogni lettore dentro la storia facendogli rivivere l’esperienza sempre traumatica (nel bene e nel male) del trasloco (chi non ne ha mai affrontato uno?), Trevi insiste soprattutto su quella che gli appare la migliore attitudine di Balla, ovvero quella capacità (per lui una vera e propria necessità esistenziale e un tutt’uno con il proprio credo artistico) di riuscire a insediarsi in un altrove inizialmente estraneo e ostile, di essere capace di infondere la propria personalità a un ambiente impersonale, di riuscire a manifestare la propria identità anche e non ultimo sub specie immobiliare. Un desiderio comune a chiunque, in fin dei conti, se è vero che una casa a propria immagine e somiglianza resta ancora oggi – anzi, proprio oggi, in tempi in cui la mobilità fine a se stessa è stata messa in crisi dall’evento pandemico – in cima ai desideri degli italiani (e non solo):
«forse non c’è nulla di più estraneo, se non ostile, a un progetto di estetizzazione della vita di questa tipologia di appartamenti e di condomini. Ma è proprio in queste condizioni avverse che si gioca la partita vera, e Balla, suprema coscienza di grande artista, lo sapeva bene. Sempre la bellezza si nutre del suo contrario: la greve, inerte, torpida resistenza del mezzo. E se vuoi trasformare la tua casa in un’opera d’arte totale, muovendoti tra tutte le rivelazioni che possono scaturire dal combinare luce, colore e movimento, è un appartamento come quello di via Oslavia che ti serve, non un romantico ex convento dei Parioli, degno di un romanzo di D’Annunzio, destinato ad assorbire in maniera eccessiva, con il suo fascino preesistente, qualunque massiccio intervento da parte del nuovo inquilino. Quella del civico 39, quarto piano – indirizzo uguale a milioni di altri – era veramente una tela bianca» (p. 54).

Foto di Cecilia Mariani
Non tragga dunque in inganno nemmeno la candida copertina del catalogo, in cui il protagonismo riservato al lettering è solo l’anticamera di ciò che vi si troverà tra le pagine una volta varcata la soglia d’ingresso. Dentro Casa Balla non ci si sentirà mai ospiti sgraditi o morbosi ficcanaso: si passeggerà tra le stanze come in un continuum, in una planimetria in cui anche il corridoio «spazio di risulta per definizione», viene elevato, come nota Domitilla Dardi, «a proscenio della vita» (p. 41). Proprio lì, è d’accordo Emanuele Trevi, sarà forte «l’impressione di un passaggio aperto, di un dislivello tra piani di realtà contigui ma dotati di leggi proprie e inconciliabili»; e forse, a pensarci bene, «percorriamo un condotto simile ogni volta che veniamo al mondo, o che l’anima abbandona il corpo in attesa di nuove incarnazioni» (p. 56). Quanto allo spirito di Balla e delle sue figlie, proprio quello è più vivo e presente che mai, pronto ad accogliere di buon grado chiunque voglia passare a fare un saluto. A casa come al museo. Anzi: dalla casa all’universo e ritorno.


Cecilia Mariani