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Fra le pieghe amare del sogno multiculturale: "Apolide" di Shumona Sinha

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Apolide
di Shumona Sinha
Edizioni Clichy, 20 luglio 2021

Traduzione di Tommaso Gurrieri

pp. 174
€ 17,00 (cartaceo)





Un libro scomodo. Questo è il primo aggettivo che mi viene alle labbra per qualificare questo romanzo, il terzo, della scrittrice indiana Shumona Sinha. Dopo A morte i poveri! e Calcutta, entrambi editi in Italia da Edizioni Clichy nella collana Gare du Nord, Shumona Sinha torna a parlare di identità e rapporto fra culture diverse, in modo affatto pacificante. Apolide è la storia di tre donne, Esha, Mina e Marie, che non vedono riconosciuta la loro vocazione di libertà. Le loro vite sono sospese tra India ed Europa, nella nostalgia del non più e nell'illusione mai raggiunta del non ancora. La situazione di apolide è proprio quella di chi ha dismesso la propria vecchia identità - gli dei indù che oramai appaiono estranei alla mente 'illuminista' di Esha - ma che non riesce ad assumerne una nuova, perché si trova ghettizzata, marginalizzata per la propria irriducibile diversità
Nessuno avrà mai le apparenze che servono per essere di questo paese, per parlare la sua lingua, non la si parlerà mai abbastanza bene, non si avrà mai il legittimo accento. La torre della lingua si eleva, gli stranieri volano e volteggiano intorno, vengono a becchettare, ci lasciano piccoli escrementi, ma non potranno mai farci il nido. Il diritto della lingua è duro quanto quello della patria, ma anche astratto e sfumato, non si può conoscerne la carta e il territorio. Ormai l'uso era di definire uno per la confessione, l'altro per la sua etnia o la sua origine, o non si sa per quale ceppo, ramo, radice...Si doveva assolutamente andare all'origine delle cose, risalire la scala, reinventare Darwin, rovistare nelle pattumiere e cercare l'erroe. Categorie e sottocategorie, scatole nelle scatole, un imballaggio infinito, mentre carta e plastica inquinano le spiagge su cui si arenano corpi di annegati senza identità. (p. 156).

Con scrittura poetica, ma al contempo arrabbiata, Shumona Shina ci narra un'altra Parigi. Non vi è posto, se non di sfuggita, per la ville lumiere, per  i ponti sulla Senna, per Notre Dame. Questa era la Parigi da cartolina che aveva attirato Esha, una Parigi romantica e brillante come il sogno dell'Occidente. Ma la Parigi che ci viene presentata in Apolide è quella che sta fuori da ciò che appare ad Esha un inscalfibile e impenetrabile centro. 

Lei viveva in fondo al viale, punteggiato di benzinai, concessionarie d'auto e bettole cinesi, insieme a quelli che avevano origini straniere diverse e varie, attaccati a quell'estremità come alla coda d'un serpente lento e stanco, la cui vita si svolgeva altrove e più in alto e che minacciava di scuotersi per sbarazzarsi di quella marmaglia come fosse un'imbarazzante escrescenza. Vivere lì era la loro ultima possibilità, per tutta quella gente, per avvicinarsi costi quel che costi alla ricchezza. (p. 18).

Esha insegna a Parigi e già questo la fa apparire aliena alla logica del mercato del lavoro, che assegna ad ogni immigrato un tipo di lavoro a seconda della sua nazione di provenienza. Le rumene fanno le badanti, le filippine le colf, i marocchini i venditori. L'autrice ferisce il lettore per la lucidità con cui presenta la falsità del mito della metropoli multiculturale. Esha rappresenta un'anomalia e seguiamo sgomenti il suo sforzo per ottenere la cittadinanza, l'incomprensione della madre rimasta a Calcutta per questa sua scelta. Ma l'emarginazione delle donne è uno status che non può essere superato con un ritorno alle origini. La storia di Mina ci mostra il volto brutale delle morale di un certo induismo che  umilia le donne, le mette al bando, le uccide in nome di un "disonore". Mina, nel romanzo, è la voce sognante, la fiducia nell'amore, che avrà un finale tragico .

Tra chi parte e chi resta, vi è la storia di Marie, la terza donna di Apolide. La sua storia, che narrativamente serve anche ad unificare le tre trame, è quella di una bambina indiana adottata da genitori parigini. Diventata adulta, Marie torna a Calcutta per ritrovare le sue origini ma soprattutto per cambiare le cose. Marie è un'attivista politica, lotta per i diritti umani

Le era servita una causa per dare un senso alla sua erranza, per correre, senza fiato, verso uno spazio vergini che sprofondava sempre di più nell'ignoto, il luogo della sua nascita in cui la gente aveva un nome, dove avrebbe potuto incontrare i loro volti, la loro voce e il loro amore. (p. 162).

In un romanzo più che amaro, che non salva né l'Oriente né l'Occidente, la crudele morale dell'autrice è che «ogni società  si era attribuita una parte del corpo femminile per simboleggiare il peccato», ogni società - anche quella che si fregia di essere erede dell'Illuminismo - usa il corpo delle donne.  

Shumona Sinha scrive in francese e questa scelta apre uno spiraglio, a mio avviso, in una dimensione culturale di cittadinanza. Lei dichiara di pensare oramai in francese e questa sua lingua così tersa, la voce narrativa forte e struggente ci parlano di una nuova idea di patria, probabilmente, che si intreccia indissolubilmente con l'idea di libertà e di appartenenza.


Deborah Donato