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Prima verso l'alto, poi verso l'altrove: "Parete Nord" di Jean-Marc Rochette

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Parete Nord
testi di Olivier Bocquet e Jean-Marc Rochette
illustrazioni di Jean-Marc Rochette
prefazione e traduzione di Paolo Cognetti
L’ippocampo, 2021

pp. 294
€ 25,00 (cartaceo)

«A mia madre». È questa la dedica che Jean-Marc Rochette appone in cima al suo Parete Nord, autobiografia a fumetti già pubblicata in Francia nel 2018 con il titolo originale Ailefroide (un successo tanto clamoroso quanto inatteso, con decine di migliaia di copie vendute) e appena data alle stampe da L’ippocampo nella sua versione italiana con traduzione e prefazione di Paolo Cognetti (già autore di una postfazione per il suo Il Lupo). Ma se l’omaggio dichiarato alla figura materna, a badarci, non appare subito come una scelta particolarmente originale, ecco che nel corso della lettura si comincia a dubitare del fatto che la figura femminile a cui l’autore fa riferimento con tanta devozione non sia davvero, o non sia soltanto, quella di matrice biologica (con cui ebbe in realtà un rapporto piuttosto tormentato) bensì quella di natura minerale, fatta di vette e ghiacciai, neve e crepacci: la montagna, insomma, colei che più che dargli la vita gliela cambiò radicalmente, conducendolo ad avventurarsi in percorsi di autentica venuta al mondo, (quasi) morte e rinascita. Per non parlare, poi, di un’altra fondamentale controparte materna che fu per lui all’origine della vita adulta, vale a dire quella vocazione artistica che già lo conquistò da bambino di fronte al Bue squartato (1925) di Chaïm Soutine esposto nel museo di Grenoble, che lo fece poi sopravvivere negli anni censori del collegio e che infine lo resuscitò a nuova professione dopo l’incidente ad alta quota in solitaria a cui ebbe la ventura di sopravvivere nel 1976.

È dunque un dualismo curiosamente assortito quello che caratterizza l’esistenza di Rochette: da una parte il massiccio degli Écrins, con la sua realtà di roccia e acqua allo stato solido, da conquistare di volta in volta, di cima in cima, sfidando se stesso per poi concedersi il godimento di paesaggi e panorami capaci di riconciliare con il creato; dall’altra il monumento funebre di un artista immenso che fu un libero battitore, e il cui cognome, anagrammato, significa proprio “sostegno” (“soutien”, per l’appunto, in francese). Come a dire: in una mano l’attrezzatura da alpinismo, nell’altra i materiali da disegno. Due differenti tipologie di strumenti o, se si vuole, di protesi alle quali aggrapparsi e con le quali esprimere il proprio desiderio di esplorazione e interpretazione del mondo; due attività apparentemente hobbystiche – alternative pur sempre preferibili alla droga, secondo l’opinione banalizzante della madre del giovane Jean-Marc – ma che alla lunga finiranno per determinare il destino dell’adolescente prima e dell’uomo poi. Un destino che l’autore non fa che palesare a ogni tavola, dal momento che ha scelto di ripercorrere il suo cammino – in più tratti ripido e rovinoso – non tanto a parole (peraltro scelte con l’aiuto di Olivier Bocquet) quanto con le immagini.

La contrapposizione tra il senso di prigionia dato dalla routine di provincia negli anni Sessanta e Settanta e il senso di libertà dato dalla frequentazione della montagna e della natura è reso da Rochette principalmente attraverso il colore: impossibile non percepire con sollievo la netta differenza tra asfissia e respiro ogniqualvolta l’ambientazione si sposta dalle mura domestiche, scolastiche e collegiali alle pareti di roccia. I toni smorti e marci del trantran opaco, di una potenza avvilente, non possono nulla nel confronto con la luminosità abbagliante del cielo, del ghiaccio, della neve. E anche quando la montagna, specie nel maltempo o nella disgrazia, si rivela come l’esatto opposto di un Eden per arrampicatori spirituali illusi, i suoi toni cupi e bruni non hanno nulla dello squallore urbano, e anzi si caricano di una valenza drammatica, per certi versi epica, che incute il rispetto che si deve a tutto ciò che è ontologicamente maestoso e dominante. Questa alternanza espressiva risulta più che mai funzionale al racconto di Rochette, che segue il filo cronologico di quello che fu il suo percorso di iniziazione alla vita senza ipocrisia e senza retorica, in cui le dinamiche della scalata fanno il paio con i moti dell’amicizia e dell’amore ma anche con gli scossoni dello scontro generazionale e ideologico, per non parlare delle vere e proprie frane rappresentate dall’esperienza fisica di tutto ciò che è dolore, infortunio, incidente, morte. Tavola dopo tavola – e anche grazie ad alcune rade ma efficaci “interpolazioni” che sono autocitazioni grafiche e pittoriche dello stesso Rochette – si comprende in modo sempre più chiaro come il centro di questa storia personale sia la ricerca di una direzione di riscatto: dapprima verso l’alto, e poi verso l’altrove, ovvero quell’America dove un giovane uomo europeo, scalatore esperto e illustratore in erba, può coltivare con successo le ambizioni di un qualsiasi self made man.

Mentre è ovvio immaginare il gradimento di Parete Nord da parte di coloro che da tempo seguono e ammirano il lavoro di Jean-Marc Rochette – e del resto quale migliore quadratura del cerchio di quella di un illustratore che si racconta in una graphic novel? – vale la pena consigliarne la lettura anche al pubblico teoricamente più insensibile alle ambientazioni e alle tematiche di un lavoro di questo tipo. Perché non c’è dubbio che in queste trecento pagine la montagna la faccia da protagonista e da comprimaria, ma le intenzioni del loro autore non sono evidentemente state quelle di circoscrivere il discorso a una retorica di settore, peraltro già abbondantemente esplorata. Al contrario, non si può non condividere ciò che Paolo Cognetti esplicita nella sua prefazione, evidenziando come nella gerarchia di Rochette l’aspetto narrativo e letterario abbia intenzionalmente la precedenza rispetto a quello sportivo e alpinistico:

«è raro trovare buoni libri nella letteratura d’alpinismo. Eppure da sempre gli alpinisti scrivono, fa parte del loro mestiere. (…) Però, tra tutti questi avventurieri con la penna in mano, non ce n’è uno che si sia rivelato anche un grande scrittore. (…) Forse succede perché i grandi alpinisti hanno una sfiducia di fondo nel potere della parola. In montagna si parla poco e niente. E dentro di sé sembrano sempre sentire che la parola è insufficiente a trasmettere ciò che hanno vissuto, e che all’intensità dell’esperienza la scrittura non può arrivare. (…) Ci voleva qualcuno come Jean-Marc Rochette, che invece fosse prima di tutto un narratore, e solo poi un alpinista (è lui stesso, nel corso di questo libro, a stabilire questa priorità). Qualcuno mosso dalla fede che la parola, e il disegno nel suo caso, nelle mani di un artista possano arrivare dappertutto. Del resto a cos’altro dovrebbe ambire, la letteratura, se non a raccontare l’esperienza umana sulla Terra?» (p. 4).

Avvincente come ogni racconto di formazione le cui prove, per quanto esclusive e ad personam, riescono a chiamare in causa chi legge, Parete Nord non è dunque un malcelato spot promozionale sull’alpinismo a firma di un suo esponente illustre: la montagna, pur con tutto ciò che ne consegue in termini di approccio realistico e simbolico, è qui presentata molto opportunamente come una tra le numerose categorie dell’esistere, una sorta di rito di passaggio inesausto che si ripete a ogni nuova scalata ma che convive con la varietà di prove a cui la vita sottopone ogni essere umano alla ricerca della propria identità e del proprio senso nel mondo. Grazie a questa chiave interpretativa, il lavoro di Rochette apre la via a un orizzonte molto meno fanatico e autoreferenziale di quanto si potrebbe pregiudizialmente aspettare, ed è proprio per questo che ciascun lettore ci ritroverà qualcosa di sé, tra scalate, discese, cadute e soste. A ciascuno le sue Écrins, dunque. A ciascuno il suo “scrigno” di esperienze e ricordanze.


Cecilia Mariani