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"Decameron project": il tempo sospeso del primo lockdown, il ruolo della narrazione in 29 racconti magistrali

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Decameron project
NN editore, 2021

Traduzione AA.VV.

p. 288
€ 19 (cartaceo) 
€ 8,99 (ebook)

Il mestiere del redattore culturale è lontanissimo dall’essere una scienza esatta. Abbiamo gli strumenti, affiniamo negli anni uno sguardo critico il più oggettivo possibile, ci misuriamo costantemente con la ricerca, lo studio, lo scambio con gli altri ma, è innegabile, la lettura e di conseguenza buona parte di quello che vi ruota intorno è un fatto essenzialmente personale. Tocca corde private e per loro natura soggettive e non è sempre facile mantenere quel necessario distacco per entrare nel testo da professionisti. Con Decameron project, l’iniziativa fortemente voluta dal New York Times Magazine e portata in Italia da NN editore, la faccenda si complica ancor più per il punto da cui tutto parte e che influenza, in modi evidenti o meno, ogni pagina che contiene. 
Ho sempre pensato che la narrazione necessiti di una certa distanza storica dai fatti; penso, per esempio, all’11 settembre e alle narrazioni che ne sono seguite, straordinarie in taluni casi, messa la distanza necessaria per elaborare i fatti, seguirne gli sviluppi nel tempo, tentare di comprenderne le implicazioni e, forse, sentirsi meno coinvolti. Chiudendo il libro resto ancora di questa – personalissima – opinione, ma è innegabile l’importanza sociale prima ancora che letteraria del progetto. Decameron project racchiude ventinove nuovi racconti di autori vari dalla pandemia: nati, quindi, durante quei primi mesi di lockdown, che non necessariamente raccontano direttamente del virus e del confinamento ma di cui, per forza, sono intrisi. Una raccolta di testi che diviene in primo luogo testimonianza ma anche costruzione di un ricordo, «per partecipare al racconto del mondo in cui abbiamo vissuto», come ben esplicato da Eugenia Dubini, editore di NN. 
Quando il tempo sembrava come sospeso, un anno fa, la narrazione ha in qualche modo spezzato la maledizione ridandogli la capacità di scorrere, creare. Le chiavi di lettura di questa raccolta sono molteplici e tutte in qualche modo devono tenere conto si diceva della delicatissima materia trattata. Testimonianza, quindi, creazione di una comune memoria ma anche in qualche caso discostamento: dalla realtà vissuta tra le mura domestiche, attoniti e smarriti per quanto stava – sta – capitando, serrature che si aprono grazie al potere della narrazione in un superamento di confini geografici e culturali
Ecco quindi che in alcuni racconti riconosciamo la comune quotidianità, i ritmi scombinati, l’apatia o l’efficienza di certe giornate, tanto in un appartamento della provincia italiana quanto, per un attimo, in una stanza a New York. 

I ventinove autori, tra le voci più interessanti del panorama internazionale – tra cui anche l’italiano Paolo Giordano – riportano la narrazione al suo ruolo primordiale e la polifonia si riflette nella scelta dell’edizione italiana di affidare ogni racconto a un traduttore diverso. Margaret Atwood, Edwidge Danticat, David Mitchell, Liz Moore, Laila Lalami, Mia Couto, sono alcuni degli autori che hanno aderito al progetto e forse bastano a rendere l’idea anche della valenza letteraria di certi racconti presenti. Se la pandemia è il punto d’origine del progetto e le pagine ne sono in qualche modo intrise, ci sono racconti di rara godibilità letteraria, un mosaico ricchissimo e variegato di tragicità, ironia, gusto per il distopico o, per contro, l’assoluta aderenza alla realtà che sembra farsi quasi cronaca-diario; il tempo stesso dell’ambientazione è di volta in volta differente, sospeso, decisamente ancorato all’immediato presente o, per contro, in un futuro prossimo in cui la pandemia è alle spalle, forse già memoria storica. È quest’ultima chiave quella scelta per esempio da Etgar Keret, con un racconto già apparso su Internazionale e ritrovato con piacere in questa raccolta, in cui l’autore israeliano immagina lo stupore e lo straniamento del post lockdown:
Tre giorni dopo la fine del lockdown era chiaro a tutti che nessuno sarebbe uscito. Per qualche oscuro motivo la gente preferiva rimanere a casa da sola, o insieme alla famiglia. Oppure si sentiva meglio lontana dagli altri. Dopo così tanto tempo si era abituata a non andare al lavoro, al centro commerciale, al bar con gli amici, a non essere improvvisamente abbracciata per strada da ex commilitoni. (“Fuori”, Etgar Keret, p. 95)
Confusi, non più abituati a muoversi fuori dalle mura domestiche, i personaggi di Keret hanno perso memoria della vita di prima e quella stessa polizia che gridava “state a casa” ora bussa di porta in porta – con un fare anche un po’ minaccioso – per costringere i cittadini a riprendere a vivere, lavorare, socializzare:
Forze di polizia e dell’esercito hanno cominciato a bussare alle porte e a ordinare a tutti di uscire e di riprendere la normale routine. (“Fuori”, Etgar Keret, p. 95)
Surreale, ironico, il brevissimo racconto di Keret mette in scena esasperandolo quel senso di straniamento piuttosto familiare e la gravità che aleggia sopra ogni riga quasi si fa corpo nel finale, una nota amara che riporta l’attenzione sulla rapidità con cui slogan e momenti di calore umano sono presto dimenticati, per tornare troppo spesso all’indifferenza. Non ne usciremo migliori, insomma, solo una versione un poco più vecchia di noi stessi.

Anche lo sguardo di Karen Russell indugia per un attimo su quel dopo e sulle distanze non più sociali ma ancora più profonde e terribili che presto o tardi caratterizzeranno di nuovo la quotidianità, registrando le prime spaccature ed estraneità fra i protagonisti della sua storia un attimo dopo la fine della crisi, l’incidente in cui si sono trovati coinvolti.

Ci sono poi storie che si fanno altro dalla pandemia o, per meglio dire, questo altro è quanto di più forte colpisce il lettore e la domesticità obbligata quasi uno sfondo, un’ambientazione casuale, la riflessione centrata su questioni differenti. I rapporti di lungo termine, la mutevolezza dell’amore, la quotidianità, la tematica razziale:
[…] Toby, pensi mai di sposarmi? E poi sussurri, Per te sono soltanto bianca? Mi fai sempre domande come queste perché pensi che le risposte siano semplici, che io possa dire prima sì e poi no, che imparerò a lasciare che l’amore vinca su mille anni di odio e su tutti gli altri problemi che ci sono tra noi. (“Sonno”, Uzodinma Iweala, p. 212)
Nelle paure, nella speranza, nel quotidiano, riconosciamo quel tempo sospeso vissuto a livello globale che, come negli intenti, anche grazie alla narrazione ha ripreso a scorrere. A farsi testimonianza, memoria comune.