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#ScrittoriInAscolto – Trionfo senza preavviso: in dialogo con Douglas Stuart e il suo struggente e stravolgente "Shuggie Bain"

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Copertina Shuggie Bain

Storia di Shuggie Bain
di Douglas Stuart
Mondadori, gennaio 2021

Traduzione di Carlo Prosperi
pp. 528

21,00 € (cartaceo)
10,99 € (ebook)

[…] una vita comprata a credito, senza che nulla sembrasse mai del tutto tuo (p. 26).
Nel novembre 2020, Storia di Shuggie Bain, romanzo d’esordio di Douglas Stuart, “Glaswegian in New York” (come scrive sul suo profilo Twitter), vince il Booker Prize, come noto, il più importante riconoscimento letterario britannico. Negli ultimi mesi, Shuggie Bain ha fatto il giro del mondo e  nuove traduzioni spuntano giornalmente. Questo sta avvenendo di certo grazie all’importante piattaforma di visibilità offerta dal Booker, ma accade soprattutto grazie alla fiducia e lungimiranza di Grove Atlantic, l’editore americano che per primo ha creduto in Douglas Stuart e nel suo romanzo ambientato nella Glasgow thatcheriana. Mondadori lo ha portato nelle mani dei lettori italiani a metà gennaio nella traduzione di Carlo Prosperi e, grazie a loro, un paio di giorni fa abbiamo avuto la possibilità di fare due chiacchiere con Stuart insieme ad altri blogger. 

Quello che è emerso, seppur da un incontro virtuale, è che Stuart dimostra quella gentilezza e purezza di spirito che caratterizzano a pieno il suo romanzo. Con Storia di Shuggie Bain si parla di fiction autobiografica, dal momento che Stuart, come il giovane protagonista Shuggie, è cresciuto nella classe operaia glaswegiana con fratello, sorella e una madre alcolizzata, che ha perso quando aveva sedici anni. Le vicende di Shuggie si dividono tra una formazione stentata per via degli scarsi mezzi economici, l’assenza di una solida figura paterna, un costante senso di manchevolezza nei confronti del contesto in cui cresce, anche per via della propria sessualità, e le tenaci dimostrazioni di affetto e cura nei confronti della madre Agnes, anima buona, ma perduta in una vita di insoddisfazioni.

L’autore ci racconta del suo personale approccio alla scrittura, in principio governato da un gran senso di inadeguatezza. Genesi e composizione del romanzo sono infatti stati processi molto lunghi; dieci di anni di scrittura e riscrittura del racconto, per lui così importante e personale. Il lavoro di rifinitura a cui si è dedicato con il supporto dei suoi primi editori americani è stato notevole, limando le 900 pagine in cui in principio si dispiegava il racconto di Shuggie, rendendolo efficace ed estremamente accurato.
In merito al suo approdo alla scrittura, racconta, che, dopo gli studi, si trasferisce a New York, dove vive tuttora, in parte per crescere professionalmente, in parte in cerca di un luogo che gli permetta di capire ed esprimere più liberamente la sua identità queer. Racconta di quanto sia stato complicato crescere in un quartiere povero e con pochi mezzi pur avendo aspirazioni letterarie. È stato scoraggiato fin da giovane ad intraprendere una carriera nelle lettere, non essendo cresciuto in una casa piena di libri o in cui ci si poteva permettere di approcciarsi ad una disciplina tanto fumosa e poco concreta come la letteratura. Sceglie il settore tessile e della moda, inseguendo e cercando storie anche nei tessuti con cui lavora. Dopo il trasferimento in America, queste trame lo aiutano a ricucire le aspirazioni di giovane glaswegiano da cui era stato distolto e si approccia alla scrittura, pur dovendo fare i conti con il senso di inadeguatezza che si porta dietro dall’infanzia. Confessa di essersi spesso domandato “chi sono io per scrivere un libro?”. Un’umiltà e inconsapevolezza che forse dimostrano solo i talenti più innati.

Stuart racconta poi del suo rapporto con Glasgow. Dice che spesso, alla luce del suo racconto della cruda realtà della Glasgow degli anni ’80 e ’90, impoverita dalla deindustrializzazione sotto il governo Thatcher, gli viene chiesto se ama la sua città natale. Ed è così, ama la sua città. La storia di Shuggie e Agnes Bain è per lui, a tutti gli effetti, "a suffering love letter" ("una sofferta lettera d’amore") alla più grande città scozzese, ma, l’autore precisa, parlare di un luogo che si ama mettendone in luce solo aspetti positivi e ricordi edulcorati non rende forse davvero giustizia ad esso; al contrario, gli si concede la dovuta dignità descrivendolo in tutte le sue reali sfaccettature, non nascondendo le brutture dietro un filtro lusinghiero. Stuart sente ancora una forte connessione con Glasgow, ha ancora una sorella che vive lì e torna in Scozia due o tre volte l’anno. Né la sua condizione di émigré né il trauma del suo passato legato al luogo geografico hanno quindi scalfito il suo legame con la città. È probabile che la distanza lo abbia anzi aiutato a leggerla e a raccontarla meglio. Questo rapporto di affetto sincero e sofferto rispetto nei confronti del luogo natale ci riporta facilmente a Joyce e alla sua Dublino, sull’altra più grande isola britannica. 

Sorprendentemente (ma poi non così tanto), alla domanda riguardante i suoi modelli di riferimento, l’autore cita l’influenza, in parte, di James Joyce con i suoi racconti in Gente di Dublino, ma nomina anche Thomas Hardy, i cui Tess dei D’Uberville e Jude l’oscuro sono stati grandi fonti di ispirazione. La sfortunata Tess, da un lato, si ricollega ad Agnes per la manipolazione a cui le donne sono state (e sono, tristemente) sottoposte negli anni difficili di fine secolo nelle condizioni economiche e sociali difficili; figure di grande dignità e forza a cui non è data molta visibilità nella narrativa contemporanea. Dall’altro, si ispira a Jude in quanto giovane uomo che desidera a tutti i costi trascendere il proprio destino, ma senza successo. Si ispira anche ad altri autori suoi compatrioti, come Agnes Owens e Alexander Trocchi, e, sempre per il personaggio di Agnes, al cinema, in particolare al cinema italiano di fine Novecento. Elizabeth Taylor è l’icona di Agnes si rifà nel corso della storia, per lei ispirazione ultima, e la costruzione del personaggio è sicuramente modellata su questa sua ossessiva ammirazione, ma anche sulle figure femminili dei film di Carlo Ponti e le parti interpretate da Sophia Loren (cita il suo ruolo come Filumena in Matrimonio all’Italiana di De Sica).

Dalle parole dell’autore, emerge quindi quanto i personaggi di Shuggie Bain siano il centro del racconto; lui stesso afferma, durante la conversazione, che "the book is for the characters" ("il romanzo è per i personaggi"), mettendo a fuoco l’esigenza di raccontare delle personalità vere, che buchino la pagina, che dalla sua mente e penna arrivino al lettore nella loro concreta complessità. A questo proposito, gli chiediamo se il modo in cui scrive i suoi personaggi, con tale trasporto e materialità, sia una strategia letteraria che gli dona conforto o, in qualche modo, beneficio. Ci spiega che questa sua visione e narrazione dei personaggi a tutto tondo punta a "spingerli fuori dalla narrazione" per far approdare loro e se stesso nella mente del lettore. Evidenzia infatti l’importanza del suo coinvolgimento nel processo di scrittura e studio del personaggi. Quando scrive, li osserva prendere forma e cerca di mettersi alle spalle di essi; si chiede "am I in the room with them?" ("sono [anche] io presente nella stanza insieme a loro?"), dal momento che "the book needs to reflect on where I am towards my characters" ("il libro deve rispecchiare dove mi trovo nei confronti dei miei personaggi"). 

Da un lato, certamente la scrittura costituisce per lui uno strumento per affrontare il trauma del suo passato, di un’infanzia trascorsa amando profondamente un genitore intrappolato nell’abuso e sentendosi "anormale", non avendo gli strumenti per comprendere se stesso; dall’altro, la sua narrazione è per lui anche un mezzo di riscatto ed espressione per quei personaggi working-class che non vengono più raccontati così di sovente, se non ripensando alla tradizione dickensiana (combaciante, per altro, solo per temi). "I read for empathy" ("leggo per empatia"), ci dice, e questo suo tentativo maieutico di dipingere dei personaggi tridimensionali nella forma d’arte forse più bidimensionale quale è la letteratura denota l’urgenza vera e sincera di Stuart di raccontare persone e identità che hanno popolato la sua vita e la sua immaginazione. 

Prima di salutarlo, gli chiediamo del titolo: sebbene racconti le vicissitudini dell’infanzia e della prima adolescenza di Shuggie, il romanzo è chiaramente incentrato sulla figura di Agnes Bain; perché allora non intitolarlo Storia di Agnes Bain? La risposta che riceviamo è motivata da una profonda semplicità: a parte il suono “Shuggie Bain”, da lui molto apprezzato (non è traducibile ed è fortemente connotato culturalmente e geograficamente; Shuggie è infatti il diminutivo usato in Scozia per Hugh), "the book is about the end of Agnes and the beginning of Shuggie" ("il romanzo racconta della fine di Agnes e dell'inizio di Shuggie"), [racconta] dello scambio tra un figlio e una madre, che diviene forzato quando il primo non può più ormai fare molto per la seconda, pur motivato da un amore incondizionato. Ma l’intenzione di Stuart pone l’accento non sulla tragicità delle vicende di Agnes, bensì sulla speranza che accompagna Shuggie in conclusione, a prescindere dal destino della madre.
Storia di Shuggie Bain è un racconto d’amore; un amore tragico, sofferto e forse estremizzato da un trauma inflitto ingiustamente su un ragazzino. Ma pur sempre d’amore
Era il momento che lo avrebbe reso normale? Tutti quegli esercizi nel camminare, il correre dietro a un pallone, l’imparare a memoria vecchi risultati di calcio: era stato tutto per arrivare a questo (p. 464).

Lucrezia Bivona