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Il caleidoscopio delle vite umane nel romanzo incompiuto di Irene Brin, "Le perle di Jutta"

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Le perle di Jutta
di Irene Brin
Edizioni Clichy, 2020

pp. 158
€ 14,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)



A volte, frugando nei bauli abbandonati in soffitta, pieni di vite passate, capita di trovare perle... È esattamente quello che è successo a Vincent Torre, neurobiologo di fama della Sissa, la Scuola Internazionale di Studi Avanzati di Trieste. Torre, nella villa di famiglia, a Sasso di Bordighera, ritrovò, pochi anni fa, in un antico baule in pelle, un dattiloscritto inedito appartenente alla sua fantastica zia, Irene Brin, al secolo Maria Vittoria Rossi, sorella di sua madre. Un nome che, forse, a qualcuno, in particolare ai lettori più giovani, potrebbe dire poco perché questa grande giornalista è stata, a torto, un po' dimenticata.
Eppure, nell'Italia del dopoguerra, era una delle donne più influenti del tempo, almeno per un certo settore, quello del giornalismo, del galateo, del costume, dell'arte. Della moda. Fu la prima italiana a divenire collaboratrice della prestigiosa rivista Harper's Bazaar e tutto perché, mentre un giorno passeggiava per Park Avenue, fu notata da Diana Vreeland, allora potente caporedattrice della rivista, che la fermò e le chiese di quale sarto mai fosse quel tailleur che indossava (per la cronaca, era di Fabiani). Da lì a scrivere di moda sulla rivista americana, diventandone la prima firma italiana, il passo fu breve. Spirito libero e inquieto, fine intellettuale, donna coraggiosissima, Maria Vittoria iniziò ben presto a prestare la sua penna, sempre pungente e ironica, suo vero marchio di fabbrica, a importanti testate, come Il Lavoro, Il Borghese, Omnibus. Fu proprio Leo Longanesi, direttore di questa pubblicazione, a creare per lei il nome Irene Brin, che la seguì fino alla morte. Non unico, perché pubblicò articoli sotto vari pseudonimi, da Geraldina a Marina, da Mariù a Oriane fino a Contessa Clara. Seguì il marito, Gaspero del Corso, nei Balcani, dove era stato inviato in guerra come ufficiale, fermandosi tre anni (ne uscì il libro, Olga a Belgrado). Un amore intenso il loro, che sfidava le voci sulla loro omosessualità, un legame che li portò a condividere passioni fortissime, per esempio l'arte: dopo la guerra fondarono la Galleria L'Obelisco, in via Sistina a Roma, che ben presto divenne il punto di riferimento dei maggiori artisti dell'epoca, da Guttuso a Vespignani, da Burri a De Chirico. Poliglotta, effervescente, cosmopolita non smise mai di viaggiare e la morte la colse in viaggio, fermandola in quella casa avita di Bordighera da cui siamo partiti per questa lunga presentazione. Necessaria per capire la donna che era Irene Brin. Riavvolgiamo la pellicola al contrario e torniamo alla casa ligure (che una brevissima ricerca in Internet mi ha rivelato essere affittabile tramite una nota piattaforma di scambio alloggi... incredibile, ma ci pensate?... passare una vacanza nelle stanze che videro la scrittrice crescere). E torniamo al famoso baule, che ha restituito il primo romanzo della Brin, Le perle di Jutta. E forse nemmeno doveva avere questo titolo. Riproposto da Edizioni Clichy, nella collana Père Lachaise, il dattiloscritto è stato presentato ai lettori nella forma il più possibile organica, come hanno scritto i curatori, Tommaso Mozzati e Flavia Piccinni, appassionatissima lettrice della Brin: "La nostra scelta è stata dettata dal desiderio di consegnare al lettore la stesura che ci è parsa più affine alle intenzioni originarie dell'autrice".

Ma di che cosa parla questo romanzo incompiuto che finisce con un articolo indeterminativo "perché era una..."? Chi è Jutta? E dove sono le sue perle?
L'autrice mette in scena una serata, un banchetto che raccoglie, attorno a una tavola sontuosamente imbandita, in una piccola città austroungarica (specchio della Merano che poi ospitò la scrittrice per qualche mese), nobili decaduti, principi, parvenu, donzelle esangui e in cerca di sistemazione, donne mature e diabolicamente affascinanti. Lei, Jutta, la portatrice del titolo, non c'è. Eppure è saldamente presente nelle chiacchiere delle donne, nei pensieri voluttuosi degli uomini, nell'immaginazione eccitata dei giovani. La serata prosegue, tra una portata e l'altra, fino all'epilogo, anzi ai tanti epiloghi perché poi la notte proseguirà in modo diverso per ognuno dei convitati, come il lettore scoprirà. Quale sarebbe stato il finale del romanzo non lo sappiamo, il testo, come abbiamo detto, a un certo punto si interrompe bruscamente. Ma ciò che c'è è bastevole per saggiare la prosa della scrittrice, ironica e pungente. Una prosa difficile, se si può dire così, che non agevola mai il lettore né lo lusinga o lo adesca con la scorrevolezza. Al contrario lo induce a soffermarsi su ogni frase perché ognuna ne racchiude altre, non dette, ogni immagine rimanda ad altre sembianze, ogni significato ne comprende altri, come una matrioska russa. Il risultato è una scrittura densa e cristallina, appuntita e compatta, tagliente e trasparente, come un frammento di ghiaccio. 

I personaggi del racconto sono resi con ironia e acutezza, quasi a comporre un mosaico di figurine demodé, un caleidoscopio di varia umanità: c'è la contessa in raso bianco che "apre la voragine vasta e feroce della sua dentiera e sorride"; c'è Chantal, marchesa di Pontano, avvolta da una "stanchezza di martire mondana"; c'è Marianne, "arrivata molto prima degli invitati, poiché in fondo nessuno la considera tale"; Antonia, figlia di Jutta, di cui è un pallido simulacro, dall'aria infantile, con le sue mani da ragazzo e la sua infatuazione per Laf. E poi il principe Flavio, addormentato su una poltrona. E ancora Enrico, Attendolo. Il lettore si accomoda a tavola, gli par di sentire il sapore della salsa maltese, del "meraviglioso pasticcio di selvaggina, intarsiato dai tartufi". E ascolta lo svagato e quasi annoiato chiacchiericcio dal quale emerge, figura enigmatica e misteriosa, la bellissima Jutta, moglie di quattro mariti, donna dalla bellezza incomparabile, seducente e incantatrice. Che non avremo mai il piacere di conoscere.

Nel salone da pranzo di Madame Zollern si dispiega la galleria delle tipologie umane, ognuna con le proprie ossessioni, i propri vizi e i propri vezzi che vengono aperti, come grandi ventagli di piume di struzzo, al cospetto degli astanti. Tutti incredibilmente moderni, senza tempo, con i loro fallimenti davanti allo specchio, gli amori passati, i ricordi felici.

Un libretto piccolo, esile, ma denso di tutto quello che Irene Brin avrebbe saputo esprimere nel corso della sua vita elegante, colta e raffinata. E che induce a voler leggere di più, riscoprire i suoi racconti, togliere il velo del tempo.

Sabrina Miglio