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#CriticaNera - Fantasmi del futuro e del passato: “L’impiccagione di Ann Ware e altre storie” di Margaret Doody

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L’impiccagione di Ann Ware e altre storie
di Margaret Doody
traduzione di Rosalia Coci
Mondadori, febbraio 2020

pp. 144
€ 15,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

«Devo avvertire che due dei racconti (e la dimensione leggermente spettrale di un terzo) sono ispirati o basati su storie che mi sono state raccontate, che sono arrivate fino a me attraverso la cultura orale più che quella scritta.» (p. 8)
Ci mette in guardia, Margaret Doody – canadese e docente di letteratura comparata – evitando di sussurrarci quali dei sei racconti, pubblicati per la collana Il giallo Mondadori, siano quelli testimoniati dalle parole della tradizione. Date le circostanze, il lettore non può fare altro che investigare gli strani casi di tempi passati e recenti.
Sfogliando la spessa e ruvida carta ci troviamo subito nell'ottobre del 1748, seduti tra le panche sentenziose dell’Old Bailey, corte della corona nonché tribunale penale londinese. L’imputata è Ann Ware, chiusa nel suo abitino nero, ritenuta colpevole per aver ucciso i rispettabili zii. Tra ascoltatori e spioni c’è Harley l’Imbrattacarte, che annota i resoconti dei processi e scrive le vere vite e le ultime parole dei condannati, anche se spudoratamente romanzate. La presenza di quest’ultimo crea un racconto nel racconto, poiché alla narrazione in terza persona dell’autrice si sovrappone la testimonianza diretta di Harley, che quasi confonde. Ma non è l’unico elemento disorientante; la personalità della condannata è impenetrabile e la rende inquietante e sinistra. Solo l’imbrattacarte, a dispetto della definitiva condanna a morte per impiccagione, troverà la certezza dell’innocenza della giovane.

Siamo a Gloucestershire, tra novembre 1850 e gennaio 1851. Le tonalità si schiariscono: un’altra donna – la signorina Philip - affascinante e colta, abbigliata perennemente in grigio, è istitutrice presso Saxe Abbey, una rinomata residenza. Nulla di nuovo in Il caso dell’istitutrice scomparsa, ma un colpo di scena inaspettato e osceno ci cattura nel suo pesante e polveroso velluto rosso. Non abbiamo altra scelta che credere alla testimonianza in prima persona del giovane Edmund, il quale pare narrare con sincerità la bieca esperienza di cui diviene il protagonista.

Sebbene il lettore inizi ad avvertire quel brivido, è a Oxford nel 1976 che il cuore inizia a farsi strada verso la gola. Anche in questo caso il racconto è in prima persona: una donna ricorda i tempi andati al college, quando considerava incompatibile con la moderna ricerca della conoscenza credere o interessarsi ai fantasmi. Eppure, nell'efficace descrizione del bell'edificio seicentesco immerso nel freddo inverno inglese, Lilian incontra e parla con un vero fantasma. 
Forse ci troviamo davanti a una delle storie della tradizione orale?
«Alcuni dei dettagli che fornirò potranno non essere accurati al massimo, ma lo faccio di proposito. Non voglio certo che il mio college diventi un covo per spiritisti o cronisti di tabloid. I fatti cruciali, però, sono assolutamente credibili, com'è giusto che sia se dovete comprendere davvero quanto è accaduto» (p. 55).
Fatti credibili, non veri. Il perfetto formulario di leggende metropolitane e di racconti verosimili delle persone che ci circondando ogni giorno. Pertanto, diffidate, ma con disinvoltura. 
Tornando al fantasma di I passi del duellante, vi è un elemento sconcertante: una simpatia, forse un’inclinazione sentimentale, nei confronti dello spettro, prende il sopravvento nelle azioni e decisioni della narratrice e protagonista, che le infonderà coraggio e tenacia. Inquietudine e perplessità sono inevitabili.

È nella Nuova Scozia del 1953 che incontriamo Edie, universalmente riconosciuta come “idiota del villaggio”, ma benvoluta da tutti, anche dal lettore. Una donna corpulenta, grassa e informe eppure così educata, affidabile e grande lavoratrice, soprattutto per le pulizie in casa di ogni genere. L’unico suo punto di riferimento è la madre Tonna, che sembra «una megera di quelle che fanno paura ai bambini» (p. 85). Edie non ha proprio nulla, neppure i denti per sorridere, finché il parroco del paese le fa fare una protesi dentaria. 
Tuttavia, il sorriso brillante e felice della donna termina bruscamente con un grave incidente. Nonostante l’affetto per questo personaggio, morte e post mortem lo rendono immediatamente ripugnante, eliminando il sereno ricordo delle sue mani profumate di sapone per il bucato.

Per non farci mancare nulla, l’autrice inserisce un racconto in pieno stile on the road lungo le strade della California, dove l’inebriante profumo dei vigneti stordisce i due protagonisti in viaggio sulla Ford Maverick. Ma i lunghi tratti di strada, si sa, riservano sempre sorprese, anche se nel nostro caso sembrano essere quasi mitologiche. 

Il sesto e ultimo racconto prende forma tra le calle di Venezia, lì dove i numerosi negozi di antiquariato sono pronti a rammentare antichi ricordi decrepiti, come li definisce la Doody, o immagini di morte. Se solo il negoziante avesse avvertito i clienti con un cartello ‘vietato toccare’, il protagonista non avrebbe rotto quella coppa di vetro veneziano di un rosso intenso, naturalmente intenso come il sangue.

Quale di questi sei racconti è la testimonianza di cui ci avverte l’autrice nelle prime pagine della prefazione? 
Forse la nostra investigazione è destinata a non trovare il colpevole, ma possiamo per un breve tempo credere a tutte le storie, dopotutto l’oscurità e il mistero non hanno prove inoppugnabili.

Olga Brandonisio