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"L'isola di Arturo": un romanzo di formazione immortale

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L'isola di Arturo
di Elsa Morante
Einaudi Tascabili, 1995 (prima edizione: 1957)

pp. 392
€ 13 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)


Fuori del limbo non v'è eliso (Dedica).

Una delle mie scrittrici italiane preferite del '900 è sicuramente Elsa Morante, che ho avuto la ventura di incontrare sul mio cammino letterario già alle medie quando, un po' per sfida e un po' per reale interesse, lessi avidamente e mi innamorai de La Storia (Einaudi, 1974), del quale CriticaLetteraria si è occupata qui
Mi incantai dietro ai mille significati che quel titolo così breve racchiudeva, seguii con autentica trepidazione le vicende della maestra Ida e di suo figlio, il piccolo Useppe, e poco tempo fa vidi pure la bella trasposizione cinematografica di Luigi Comencini del 1986, con una bravissima Claudia Cardinale.
Al liceo, poi, mi capitò di leggere L'isola di Arturo (Einaudi, 1957), di cui Critica ha già scritto qui, romanzo insignito del Premio Strega 1957, e lo apprezzai tantissimo. Ma fu solo quando lo rilessi qualche tempo fa che mi avvicinai realmente alla grandezza di questo romanzo di formazione.


L'isola di Arturo (dal quale nel 1962 il regista Damiano Damiani trasse un film) si colloca a metà tra una favola, un racconto di mitologia e, appunto una storia di formazione, e in esso Elsa Morante narra la crescita del quattordicenne procidano Arturo Gerace, orfano di madre e quasi del tutto abbandonato dal padre italo tedesco Wilhelm, cresciuto grazie alle cure amorevoli del "balio" Silvestro.
Sarà l'incontro con la nuova moglie di quest'ultimo (una giovanissima napoletana di nome Nunziata) e la nascita del fratellastro di Arturo, a sconvolgere le certezze del ragazzo e a condurlo verso l'età adulta.
Uno dei miei primi vanti era stato il mio nome. Avevo presto imparato (fu lui, mi sembra, il primo a informarmene), che Arturo è una stella: la luce più rapida e radiosa della figura di Boote, nel cielo boreale! E che inoltre questo nome fu portato pure da un re dell'antichità, comandante a una schiera di fedeli: i quali erano tutti eroi, come il loro re stesso, e dal loro re trattati alla pari, come fratelli (p. 11).
Le sue vulnerabilità erano misteriose come le sue indifferenza. Ricordo che una volta, mentre nuotavamo, egli si scontrò con una medusa [...]. Oggi che la vittima era lui, m'invase un sentimento solenne di tragedia. Sulla spiaggia e per tutto il mare si fece un gran silenzio, e in questo il grido d'un gabbiano che passava mi parve un lamento femminile, una Furia (pp. 31-32).
Ciò che mi ha fatto innamorare della storia è stata sicuramente la presenza di tutti i tòpoi a me più cari in ambito letterario: la presenza dell'isola come luogo lontano dal mondo, ma sufficiente a sentirne il richiamo di sirena; l'adolescenza, visto come uno dei periodi più difficili di una persona, una continua rincorsa verso l'età adulta dalla quale si vorrà poi inevitabilmente tornare indietro (per questo la riga finale della dedica del libro, nella quale la Morante scrive che fuori del limbo non può esservi eliso è probabile si riferisca alla vana illusione che superata l'età adolescenziale si potrà essere felici); il conflitto generazionale tra figli e genitori; l'amore filiale di un giovane per un padre che viene a tutti gli effetti mitizzato, per poi infrangersi a terra come un falso idolo.

Le descrizioni dell'isola di Procida, dello "stato brado" nel quale viene tenuta la casa dei Guaglioni dove vive il giovane, del mare che circonda l'isola emergono vividissime dalla penna della Morante, e si mescolano ai sentimenti e agli stati d'animo di Arturo, protagonista indiscusso della narrazione.

A proposito della scelta di ambientare il romanzo proprio a Procida, non si può non ricordare come negli anni '50 del '900 Elsa Morante e il marito Alberto Moravia (la loro storia d'amore è raccontata in un bel libro che Critica ha recensito qui) alloggiarono nell'albergo Edoardo (precisamente nel 1955), e fu proprio nell'agrumeto di questa struttura che la scrittrice trovò l'ispirazione per L'isola di Arturo, il libro che le varrà il Premio Strega e un tale plauso della critica che le consentì di essere  finalmente conosciuta per le sue opere, e non solo per essere "la moglie di".
E in questo libro di moglie ce ne è una, Nunziata, che non spicca per le sue doti, ma che anzi sembra una figura destinata a subire passivamente tutti gli eventi che le capitano, piccola donna priva di una sua propria volontà che ci appare così distante dalle figure femminili di oggi.

Un altro elemento che permea l'intera narrazione è il continuo rimando alla mitologia: il nome di Arturo, l'episodio nel quale si racconta che il ragazzo è stato cresciuto da Silvestro con il latte di capra nel quale riecheggia la leggenda di Romolo e Remo, e soprattutto la figura del padre che sia nell'aspetto che nei pensieri del figlio ci ricorda una divinità greca.
Nella figura di Wilhelm risuona l'eco del padre biologico dell'autrice che, morto suicida quando la figlia era ancora giovane, venne forse idealizzato dalla sua immaginazione.

Una menzione va fatta anche circa lo stile della Morante: è evidente, infatti, come i suoi libri siano stati scritti in un'epoca nella quale ci si dedicava con molta maggior attenzione e concentrazione alla lettura, prova ne sia la natura descrittiva e riflessiva che permea l'intera narrazione, così differente dalla velocità data dai veloci tratteggi di penna propri di tanti scrittori a noi contemporanei.

Per tornare ai grandi temi affrontati nella storia, su tutti spicca la disillusione, il disincanto che pervade Arturo quando tutti i suoi miti, le sue certezze di bambino si infrangono a contatto con la cruda realtà, quando la devozione tributata a quel padre semidio viene tradita dall'appellativo che gli viene affibbiato dal suo amante: "Parodia".
Sarà però proprio quel vortice di emozioni che investe Arturo che gli consente finalmente di aprire gli occhi, di crescere e di allontanarsi sia psicologicamente che fisicamente dall'unica vera madre che ha conosciuto: l'isola.
Procida nel libro di Elsa Morante assomiglia molto all'isola che non c'è, è infatti un microcosmo paradisiaco, fuori dal tempo, distante dalla terraferma e protetto dalle insidie del mondo e della Storia, tanto che soltanto alla fine della narrazione il lettore viene a conoscenza dell'imminente scoppio della Seconda Guerra Mondiale. 
Da questo mondo protetto, però, non si può fare a meno di fuggire per evitare di rimanere intrappolati in un'eterna infanzia.

L'isola di Arturo conferma una volta di più come la Morante sia stata una delle scrittrici che meglio hanno saputo descrivere i bambini, i ragazzi e i turbamenti che percuotono i loro animi.
La purezza, l'innocenza e la dolcezza che all'inizio della storia muovono Arturo si muteranno lentamente ma inesorabilmente nelle nuove e prepotenti emozioni che lo condurranno sulla strada della vita di adulto.

Questo è un romanzo scritto con una maestria narrativa fuori del comune, denso di contenuti, di immagini e sensazioni, perché ciò che desidera la Morante è creare un dualismo tra la visione del mondo da parte di un bambino prima ed adolescente poi e la rappresentazione del mondo reale e quotidiano del tempo in cui la storia è ambientata, ossia intorno al finire degli anni Trenta del secolo scorso.

Arturo osserva e interpreta tutto ciò che ruota intorno a sé, valendosi di tutta la sua esperienza di bimbo maturata da solo, eppure figura forte e decisa, deciso a non cedere mai all'autocommiserazione.

Una storia amara, a tratti lacerante, divisa tra i silenzi della solitudine, le condizioni di una vita aspra ed i colori di numerosi sentimenti, come l'amore, il bisogno disperato d'affetto, una storia però che non si può fare a meno di leggere e rileggere a distanza di anni dalla sua pubblicazione e di amare non solo perché rappresenta uno dei romanzi di formazione per eccellenza, ma anche per la sua potentissima forza evocativa.
La mia casa non dista molto da una piazzetta quasi cittadina [...], e dalle fitte abitazioni del paese. Ma, nella mia memoria, è divenuta un luogo isolato, intorno a cui la solitudine fa uno spazio enorme. Essa è là, malefica e meravigliosa, come un ragno d'oro che ha tessuto la sua tela iridescente sopra tutta l'isola (p.15).

Ilaria Pocaforza