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#CritiCINEMA: "The Irishman", l'ultima pellicola del Maestro Scorsese firmata Netflix

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I heard you paint houses. 
Yes, I do, sir.

Frank “l’irlandese” Sheeran (Robert De Niro) dipinge case. Ovvero, nel gergo mafioso, imbratta di sangue le pareti dove uccide le sue vittime. Lo fa senza scalpore, con il suo fare taciturno, un incedere dinoccolato fatto di grugniti e cenni di assenso. Frank non fa troppe domande. Reduce della campagna d’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, trasporta merci su un camion quando incontra Russell Bufalino (Joe Pesci), esponente di spicco di Cosa Nostra a Filadelfia, che lo prende sotto la sua ala protettrice. Ma Frank non deve tutto solo a Bufalino; c’è un altro padrino molto più famoso a cui l’irlandese deve tutto: Jimmy Hoffa (Al Pacino), il potentissimo boss del sindacato degli autotrasportatori. Questo triangolo riuscirà a durare nel tempo o nei decenni in cui si dispiega la narrazione una forza prevarrà sull’altra per riequilibrare i piatti di una bilancia viziata dai soldi e dal potere? La versione cinematografica di Martin Scorsese, con sceneggiatura di Steven Zaillian (Shindler’s list, Gangs of New York), è tratta dal libro di Charles Brandt pubblicato il 24 ottobre per Fazi Editore, che in lingua originale lascia pochi dubbi: The Irishman. I’ve killed Jimmy Hoffa. L’esito appare quindi scontato, quasi banale, ma la pellicola di Scorsese possiede un paio di punti di interesse che controbilanciano l’insieme di un film difficile da digerire e, a mio parere, nient’affatto assimilabile al C’era una volta in America di Scorsese di cui tanto si è parlato all'indomani delle prime proiezioni. Per poter dire la vostra, potete cercare qualche sala in Italia che proietta ancora il film o aspettare il 27 novembre, data in cui The Irishman sarà disponibile su Netflix.

Andando con ordine, un punto originale del film è la figura di Frank, uomo d’onore lontano dall’estetica del mafioso americano estroverso e rumoroso, e questa essenzialità scarna del suo modo di fare poco americano e più irlandese trova una corrispondenza nella compagine narrativa messa in piedi dal regista. Martin Scorsese torna sì, con The Irishman, a raccontare i gesti esemplari del mondo dei gangster mafiosi, ma mette da parte l’epica ironica di Quei bravi ragazzi o la parabola di ambizione e caduta di Casinò per rifugiarsi in una narrazione ridotta all’osso, intrisa di disincanto e dell’umore malinconico di chi, guardando indietro, vede solo una scia di sangue, lutti e perdite. Anche la violenza, cifra distintiva di qualunque film di mafia, è silenziata, secca: rappresenta l’inevitabile via di fuga di un mondo dominato da regole di sopraffazione che nessuno osa mettere in discussione. Non si ode nessun fruscio di banconote o l’eco di una gloria criminale: i quarant’anni raccontati da un Frank in carrozzella hanno sempre un messaggio di fondo. La fine è l’unica certezza della vita: per questo in The Irishman si respira un costante odore di morte. E così il triangolo che ho menzionato in precedenza è costituito dalle tre facce monumentali di una rappresentazione funebre: una messa da requiem in cui i tre protagonisti intrecciano la Storia americana con la loro storia personale fatta di malavita, corruzione, ricatto e freddezza negli affetti familiari.

Un secondo aspetto su cui riflettere è la collaborazione stretta da Scorsese con Netflix, casa di produzione che ha appoggiato il progetto mastodontico del cineasta. Come lui stesso ha raccontato alla Festa del Cinema di Roma lo scorso ottobre, Netflix è stata la risposta a una necessità di fondi e tempo. Principalmente, dico io, l’azienda di streaming più famosa al mondo sembra essere stata l’unica in grado di avallare la folle idea del ringiovanimento digitale dei personaggi. La CGI è stata, infatti, usata in maniera innovativa, senza attrezzi ausiliari o panni verdi ma solo in postproduzione. L’obiettivo originale del regista era quello di veridicità, ma l’effetto finale risulta a tratti improbabile, straniante, di certo nuovo per spettatori da sempre abituati a vedere attori più giovani a interpretare personaggi più giovani. Sicuramente questo sodalizio tra il vecchio modo di fare cinema e la nuova era dell’intrattenimento avrà ancora molto da dire a tutti gli appassionati, ma per il momento il mio giudizio è sospeso.
Infine, i 240 minuti della pellicola, duri da digerire e difficili da godere sempre con il medesimo grado di attenzione, vengono parzialmente dimenticati dall’esperienza a tratti mistica di vedere Robert De Niro, Joe Pesci e Al Pacino sullo stesso schermo. E forse proprio Pacino, il Jimmy Hoffa amante del sundae, è davvero il personaggio più incisivo, il mattatore istrionico delle scene più tese e coinvolgenti. De Niro, taciturno e giocatore di sguardi e cenni, spesso viene relegato sullo sfondo. 

O forse, per raccontare la parabola del manovale della criminalità, basta essere solo così.

Federica Privitera