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#IlSalotto - Un manuale per ragazze da marito letto dal punto di vista maschile: intervista a Irene Soave sul suo Galateo

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Foto di © Zoe Vincenti
Irene Soave è giornalista per il Corriere della Sera, dove si occupa di esteri, attualità e cultura. Ha esordito con Bompiani lo scorso settembre pubblicando un libro su un tema molto particolare, ossia la figura della "ragazza da marito" secondo i numerosi galatei e manuali di comportamento usciti in Italia. L'autrice si è soffermata soprattutto sui testi usciti dal 1861 al 1968, quando i venti del cambiamento hanno condotto il nostro paese verso una modernità più liberale e di più ampio respiro, svecchiando il ruolo della donna come angelo del focolare e dell'uomo come colui che porta i pantaloni (e lo stipendio) dentro casa.
Mentre la nostra Cecilia Mariani leggeva il libro per portare fra queste pagine una splendida recensione (potete leggerla qui), io lo affrontavo in quanto lettore dall'altra parte di un'ipotetica barricata nell'eterna diatriba uomo vs donna. Ho deciso dunque di intervistare Irene per approfondire il tema e fare due chiacchiere informali su un argomento di vastissima attualità.

Ciao Irene e bentornata fra le pagine di CriticaLetteraria. Cominciamo da prima di prima: scrivi di aver collezionato circa un centinaio di galatei e svariati manuali di condotta per signorine. Come nasce questa «curiosità istintiva»?
Eh… È come chiedere a uno perché gli piace il calcio, o la panna, o perché ama la persona che ama. Io questo argomento l’ho frequentato un po’ come un amante, per puro piacere e a capriccio, per anni, alternandogli e a volte preferendogli altre passioni. Poi una persona cara c’è sempre un atto di fiducia alla base di ogni creazione ne ha visto il potenziale comico e mi ha esortata e aiutata a scriverne, ci ha sposati diciamo. Perché mi incuriosisce il galateo? Non so, forse perché sono un po’ anarchica e guardo le regole, ogni regola, con paura e desiderio in ugual misura. 

Galateo per ragazze da marito
di Irene Soave,
Bompiani, 2019

pp. 256
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Questo è il libro di una donna, sulle donne e rivolto essenzialmente alle donne. Si fa ben leggere anche dagli uomini però, per cui ti chiedo: com’è stata la ricezione maschile? Si ritrovano nelle regole auree, spesso implicite, che descrivi?
Io ero terrorizzata dalla ricezione maschile. Pensavo che lo avrebbero visto come il pianto di una zitella, o il sarcastico monologo di una che ce l’ha con gli uomini, quando è invece proprio il contrario. Ce l’ho molto di più con il maschilismo autoimmune, cioè quello propagato da noi femmine. A un festival a cui ho partecipato di recente, Il senso del ridicolo, a Livorno, ho sentito un intervento di Massimo Recalcati che diceva: le donne non sanno mai cosa vuole un uomo, e quindi lo chiedono alle altre donne. Che, aggiungo io, rispondono con istruzioni spesso oppressive. Questo libro è la storia di queste istruzioni. La ricezione maschile, dicevamo: ne ero preoccupata, ho scoperto che sbagliavo e ho ricevuto dai maschi che lo hanno letto, e non solo da quelli che mi sono cari, un sacco di messaggi e commenti. Mi ero preparata a trattare questo libro come un figlio: a non uscire, cioè, con uomini che non lo accettano, o non gli vogliono bene. Invece ho avuto diverse sorprese. 

Abbiamo letto come le relazioni fra uomo e donna siano ancora oggi condizionate da residui di norme comportamentali otto-novecentesche. Quali di questi modelli lottano ancora in mezzo a noi pur essendo spesso percepiti come anacronistici? Penso a quando scrivi (pag. 295) che chi paga a un appuntamento, oggi che molti schemi sono saltati, è ormai diventata «una prosaica vexata quaestio».
Ahah, non è un caso che tu, intervistatore maschio, parta di lì. La cosa di chi paga la cena mi pare che vi ossessioni, a tutte le presentazioni c’è qualcuno che quando dico che il vecchio protocollo è opprimente risponde: ah, finalmente, quindi posso smettere di offrirvi la cena? Allora la regola direi è che si offre se ti fa piacere offrire, se deve essere una tortura così lascia perdere, vai piuttosto due volte a cena da solo, spendi quei denari in qualcosa che ti dà più soddisfazione, lascia che sia lei a invitarti. Il galateo dice che paga chi invita e chi sceglie il posto. Ottimo esempio di come qualche regola, per quanto potenzialmente oppressiva, serva anche come scialuppa di salvataggio quando non si sa come comportarsi.
In generale, trovo che non è che tra noi “restino” dei retaggi di quel tipo: trovo che cacciati dalla porta negli anni del Sessantotto siano invece rientrati dalla finestra per via della cultura pop negli ultimi trent’anni, e così ci scambiamo anelli di fidanzamento, diciamo cose tipo “farsi desiderare”, siamo tutti attenti allo strategismo sentimentale.

Estendendo il discorso della domanda precedente, si può dire che molte regole odierne siano residui di norme, spesso anche igienico-sanitarie, che avevano un senso nell’epoca in cui sono nate e nel tempo sono diventate assiomi. Penso a molti dei divieti dell’Antico Testamento sulla consumazione dei cibi (maiale, crostacei ecc.) e sull’omosessualità, al fine di preservare il popolo ebraico. Allo stesso modo, ad esempio, a p. 198 parli della verginità femminile come «sigillo di garanzia» nei confronti dei mariti. A tuo avviso svelare queste premesse antropologiche può essere utile per decostruire molti dei divieti e dei costumi della nostra società?
Foto di © Zoe Vincenti
Sì, ma non decisivo. Secondo me il discorso colto di matrice antropologica, così come il manifesto ideologico militante, l’attivismo intellettuale, servono eccome ma vanno a incidere sulle vite di chi è già meno oppressa dai canoni di genere. Cioè io anzi, meglio di me una studiosa vera posso farlo il libro sulle radici antropologiche del culto della passività femminile, per esempio, ma a leggerlo sarà già una che magari legge e studia per lavoro e quindi è già meno oppressa dai canoni di genere, ha già imparato a demistificarli da sé. Io invece vorrei parlare alle persone che diciamo “normali”, a quelle che magari senza essere analfabete sono però imbevute di una cultura più tradizionalista, più pop, a quelle che magari vivono davvero in un posto dove gli viene fatto capire che se sono grasse o zitelle non le amerà nessuno, e io vorrei dir loro il contrario. Ed è per questo che lo faccio ridendo e facendo confidenze anche personali (il libro è pieno di aneddoti contemporanei miei). Perché secondo me tu alle persone offri un aiuto non se vai da loro come una missionaria della ribellione, ma se intanto metti in comune una ferita, e poi magari ridi anche un po’, anche ferocemente, del tiranno che l’ha inferta. 

In che modo i social network hanno modificato – o confermato – la tradizione del corteggiamento? Strumenti come Tinder, che in qualche modo abbattono il primo muro, fanno saltare il classico schema attacco maschile vs ritrosia femminile?
Questa domanda me la fate tutti, ma guarda che in ogni epoca ci sono stati modi per forzare la mano di Cupido, compreso in epoca classica quando Cupido è stato inventato: c’erano sensali, annunci matrimoniali, e i primi computer nel secolo scorso sono andati anche a finire in improbabili agenzie di “combinazioni algoritmiche”, in cui tu ti iscrivevi e davi decine di informazioni su di te e quelli le combinavano con qualcun altro. 
I social tipo Tinder per me sono una delusione perché sottraggono all’eros il suo lato magico, automatico, sorprendente: si ordina uno con cui uscire con lo stesso spirito con cui si ordina il cibo su Foodora, e entrambe le cose a me fanno passare la fame. Preferisco cucinare diciamo. Però detto questo sono sempre per darsi possibilità anziché togliersele, e questa è una delle possibilità offerte dall’epoca. 

Cosa prescriverebbe un galateo per signorine oggi? Quali sono i requisiti della perfetta donna da marito di questi anni?
Ma non usare il condizionale: di galatei per signorine, oggi diventati manuali di self-help, ce ne sono a bizzeffe. Io, nella cucina della casa che condividevo con le mie amiche, ne ho letti un miliardo: tutte o quasi li sfogliamo. I requisiti della ragazza da marito odierna sono quelli che elenco nel libro: si fa desiderare, è indipendente ma non troppo, bella ma non troppo sexy, parla ma non troppo, non richiama non supplica non rincorre e di base abbiamo ancora qualche problema pure col fatto che desideri. Vi piace? Vi ci riconoscete? C’è speranza di somigliarle? Io dico di no. 

Moltissimi galatei e libri di bon ton si rivolgono alle donne, perfetta “preda da marito” di ogni epoca: quanto spazio si è dedicato invece al codice di comportamento maschile, almeno nel periodo indagato dal tuo Galateo per ragazze da marito (1861-1968)?
Pochissime! Pochissime. Poche ieri, ma altrettanto poche anche oggi. Guarda per esempio il doppio standard che esiste rispetto alla gestione del desiderio. Tu, donna, desideri un uomo? Attenta, potresti soffrire, si approfitterà di te, non ti esporre, non parlargli, non farglielo capire, non rischiare il ridicolo, e per quelle che gli mandano un messaggino di troppo c’è proprio il libro: La verità è che non gli piaci abbastanza. Titolo tremendo di un popolarissimo manuale letto da quasi tutte noi almeno una volta. Viceversa: tu uomo desideri una donna? Per te non c’è un manuale speculare a questo. Puoi tampinarla, chiamarla mille volte, scriverle tutte le mattine buongiorno principessa, perché non mi rispondi, mandarle la foto del cazzo, mandarle le rose in ufficio, andare a prenderla sotto casa, e tutto ciò è considerato praticamente romantico salvo la legge sullo stalking introdotta qualche anno fa, prima della quale era penalmente irrilevante “corteggiare” una fino a farla morire di spavento. Insomma tutto il sistema è congegnato in modo che i maschi possano fare quello che vogliono e le femmine no.  

Per concludere, una domanda personale: se domani dovessi metterti davanti al pc e cominciare a scrivere un manuale d’istruzioni per le ragazze di oggi, quale ne sarebbe il fil rouge? Cosa consiglieresti loro in merito all’amore, o alla vita in generale? E alla te stessa di dieci anni fa?
Io consiglierei di farsi guidare dal desiderio e di esprimerlo. Che non significa allungare una mano sul pacco di chi desideriamo o soffocarlo di attenzioni. Ma significa che ognuna si esprima: con il linguaggio che le è proprio, anche imparando a raffinarlo, a esprimere il desiderio in modo raffinato, non greve, non grondante ansia, ma a non tenerlo dentro per paura di risultare ridicola o essere rifiutata. Questo è quello che direi a tutte, e anche alla me stessa più giovane, che era più incline al mutismo. È una lunga strada.

David Valentini