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Di imperfezioni, dubbi e lampi di luce e bellezza: "Resta con me" e il miracolo della scrittura

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Resta con me
di Elizabeth Strout
Fazi editore, febbraio 2019 (terza edizione)

Traduzione di Silvia Castoldi

pp. 381
€ 18,50 (cartaceo)
Amiamo in modo imperfetto, Tyler (p. 357)

Ogni romanzo, ogni racconto, di Elizabeth Strout è un miracolo. È racconto di luci e ombre, imperfezioni, meschinità, ma anche bellezza, speranza, possibilità. Di vita, semplicemente. Di Elizabeth Strout stessa, di quel suo sguardo pieno di grazia che si posa sul mondo e sulle complessità dell’essere umano. Non c’è inganno, nell’opera di Strout, c’è la vita, imperfetta e talvolta terribile, eppure capace sempre di lampi di luce e bellezza struggente. E non c’è giudizio nello sguardo dell’autrice, solo il desiderio di raccontare l’uomo, la comunità, le piccole gioie e inquietudini di vite come tante altre, la luce e l’oscurità che è dentro ognuno di noi, in storie dove buono e cattivo spesso risiedono nella stessa anima e non esistono assoluti. Dove ci sono esseri umani a cui talvolta accade qualcosa di terribile, uomini e donne che inciampano e commettono errori, capaci di meschinità e ipocrisia; storie di solitudini in mezzo ad una folla, di giudizi ed errori, ma anche di comunità, affetti, connessioni. Anche Resta con me, il secondo romanzo scritto da Strout e da poco giunto alla terza edizione, è un piccolo miracolo. C’è moltissimo della scrittura e dei temi cari all’autrice, lo sguardo, si diceva, pieno di grazia, con cui tratteggia i propri personaggi e li rende così vividi e reali da creare una connessione profonda tra loro e il lettore. Perché forse non nelle storie, non del tutto, ma nei sentimenti e nei dubbi di quegli uomini e quelle donne ci riconosciamo o, al contrario, siamo spinti a confrontarci con le nostre presunte certezze. E con le crepe, dentro ognuno di noi, dentro ogni vita.
Anche in questo caso, sono innumerevoli gli spunti di riflessione che nascono da questa storia, ma, come ripeto ogni volta, ognuno di noi ha una chiave di lettura personale e unica, ciò che resta dentro e ci colpisce è quasi sempre diverso e, con ogni probabilità, muta a seconda del contesto in cui ci avviciniamo a una storia. Oltre ad essere folgorata come per ogni opera della Strout dal miracolo della scrittura, porto con me, ben oltre la conclusione della lettura, ancora una volta quel senso di pace e speranza che mi spinge a riconoscere la bellezza, che è intorno a noi, sempre. Sono spiragli di luce, uno sguardo delicato che su tutto si posa e racconta le pieghe, le imperfezioni di ognuno di noi, le cadute e le debolezze, ma anche il senso di possibilità, più forte di tutto, che Stout magistralmente riesce ogni volta a raccontare senza cadere in facili moralismi o per mezzo di una visione “favolistica”, ingenua, della realtà, ma con la spontaneità e la bellezza di chi davvero ci crede.

Entrare in questa storia è stato meno immediato per me rispetto a quanto accaduto con le altre opere della stessa autrice e il processo di riflessione e scrittura ha richiesto del tempo in più, ma soffermarsi più a lungo dentro la storia e le sensazioni suscitate mi ha reso più consapevole della ricchezza di spunti e sentimenti che la lettura aveva generato. Osservare le vite di quella piccola comunità del Maine, sulla fine degli anni Cinquanta – ma ogni connotazione geografica e cronologica perde importanza di fronte a sentimenti, difetti e passioni di uomini e donne che trascendono il tempo e lo spazio – si è presto trasformato in “partecipare”: al dolore del reverendo Tyler Caskey per la perdita dell’amatissima moglie Lauren che si fa confusione, dubbio, assenza; al senso di colpa della piccola Katherine che, devastata dalla scomparsa della madre, scivola in un mutismo e in un mondo in cui sembra impossibile penetrare; all’amicizia che nasce inaspettata in un momento di difficoltà e sembra portare un po’ di luce e consolazione; al ricordo di legami d’affetto che qualche volta possono salvare. Ma Strout indaga anche fra le pieghe di quella comunità di fedeli, nelle vite di ognuno di loro fra segreti e meschinità da celare dietro la facciata di perbenismo anni Cinquanta, nella diffidenza e nella superficialità dei rapporti, nella crudeltà dei pettegolezzi che possono distruggere:
La gente diventa nervosa. Hanno bisogno di prendersela con qualcuno, specialmente quando fiutano la debolezza sotto la superficie di un uomo che credono forte. (p. 278)
La “debolezza” di Tyler, ciò che la comunità non gli perdona, è proprio aver mostrato le crepe della propria vita: una moglie bellissima – si, la stessa donna che la comunità non aveva mai del tutto accettato e accolto – prematuramente scomparsa che getta la famiglia nel caos, ognuno perso in una forma differente di mutismo e lontananza dal mondo che lo circonda, i sermoni che un tempo incantavano i fedeli ora letti con tono troppo vago e distante, l’incapacità di ritrovare empatia e accorgersi dei problemi della propria comunità interpretata come indifferenza e meschinità. Ma è quella stessa comunità che sembra non essere in grado di stringersi intorno al suo reverendo, a un suo stesso membro, nel momento della difficoltà, preferendo voltare lo sguardo da un’altra parte, fomentare sospetti e pettegolezzi per distrarsi dalla miseria della propria vita. Allontanarsi, insinuare il dubbio, giudicare con superficialità. Il dolore degli altri, le personali reazioni di fronte alla tragedia. C’è un padre, che soffre per la perdita della moglie e sembra incapace di vedere realmente ciò che accade intorno a lui, le crepe sempre più profonde, concentrato al punto sul proprio dolore da perdere di vista tutto il resto, la comunità di fedeli con i loro problemi e perfino quella bambina che si chiude sempre più in sé stessa, nel silenzio di un mutismo rotto da comportamenti che spaventano gli adulti incapaci di capirli e preoccuparsene veramente, perché è molto più facile giudicare, guardare solo in superficie.
[…] cosa sapeva la gente dei propri figli? […] quella discrepanza, la sua idea della figlia e il modo in cui gli altri la vedevano, lo spaventò, come se Katherine, ogni volta che usciva di casa, sprofondasse nel ghiaccio, dentro un’acqua oscura in cui lui riusciva a malapena a vederla (p. 144)
È di una tenerezza straziante la piccola Katherine, il suo mutismo un grido assordante, ci mette di fronte a mancanze e colpe di quegli adulti che troppo presi da sé stessi o semplicemente imperfetti come lo siamo tutti non sanno accorgersi dei piccoli, grandi drammi quotidiani:
Katherine voleva bene alla sorellina. Chiunque le avesse osservate si sarebbe accorto che era così. Anche se di rado l’abbracciava, restava sempre vicina alla piccola e aspettava che le manine l’accarezzassero. Allora sorrideva, ricambiava le carezze, e una volta, quando Jeannie, correndo sul pavimento della sala da pranzo, cadde a terra e sbattè la testa tanto forte che si mise a piangere, Katherine si sforzò di tirarla su con le sue piccole braccia, sussurrando: «Buona, buona». Ma qualcuno si accorgeva mai di qualcosa? (p. 94)
Ecco, un’altra riflessione scaturita da queste pagine: il peso dell’indifferenza. Più volte nel corso del romanzo, in diverse forme e situazioni, ci ritroviamo a pensare quanto male faccia sentirsi invisibili, un sussurro in un mondo che urla, un volto tra la folla. Quel senso di solitudine ancora più doloroso all’interno di una famiglia o di una comunità che ci si aspetterebbe coesa. «ma qualcuno si accorgeva mai di qualcosa?» è il peso dell’indifferenza, della fretta con cui congediamo la risposta a un nostro generico “come stai?”. Eppure, ancora una volta, di quegli uomini e quelle donne, delle loro vite piccole e imperfette, Strout sceglie di vedere – e poi di raccontare – il senso di possibilità, di cambiamento, di “rinascita”. La speranza, appunto. Per quegli esseri umani così simili a noi, reali proprio perché imperfetti e capaci di errori, ma su cui il suo sguardo si posa, sempre, con grazia e fiducia. È questo il miracolo più grande di Elizabeth Strout.

Debora Lambruschini