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Il vero ponte non unisce Scilla e Cariddi ma Catania e Tokyo: le lezioni di "sicilianitudine" di Ottavio Cappellani

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La Sicilia spiegata agli Eschimesi (e a tutti gli altri)
di Ottavio Cappellani
Società Editrice Milanese, 21 febbraio 2019

pp. 128
€ 12,00

Tu, proprio tu che chiami arancina quel cono di riso ricoperto di muddica e ripieno al ragù, sì, proprio tu sei il destinatario dell’ultimo libro di Ottavio Cappellani. Puoi anche non essere Eschimese (anzi, è altamente probabile che tu sia italiano, palermitano nello specifico), ma La Sicilia spiegata agli Eschimesi (e a tutti gli altri) è stato scritto proprio per te. Perciò mettiti comodo, rilassati e inizia la lettura con la consapevolezza che, alla fine, avrai l’impressione di non aver capito meglio la Sicilia, ma avrai vissuto un’esperienza formativa talmente folle e rabbiosa da avere perfettamente cucita addosso la maglia della sicilianitudine.
 
Degli Eschimesi del titolo, neanche l’ombra nel libro. Della Sicilia tutta, neanche. Mettiamo subito le mani avanti: per Cappellani la Sicilia è Catania (al massimo la Sicilia orientale). Nulla di personale contro gli altri abitanti dell’isola, ma «è necessario sottolineare che, pur nella differenza tra Sicilia orientale e Sicilia occidentale, esiste un’unica e sola e splendente ed eterna Sicilia. Quella orientale.» (p. 21) 
 
Non lasciare però che la delusione (o il campanilismo geografico, fai tu) ti spinga a lanciare il libello nel nelle fiamme di una punizione infernale: quella che leggerai è una guida a tutto tondo sulla Sicilia, che proprio in questa affezione per uno spicchio di Trinacria trova voce il modo di essere e sentire siciliano. Quel modo di infervorarsi per una festa patronale, di indugiare all’ombra di un albero secolare, di rispettare il comico del tragico (visibile nel teatro greco di Palazzolo Acreide) o di antropomorfizzare persino la pasticceria, di cui cannoli e minnuzze (queste, letteralmente) sono organi sessuali maschili e femminili, dotando di carica erotica l’atto più sacro che esista in Sicilia: il mangiare.

E se non ci sono Eschimesi nel libro, una giapponese, invece, è stata la miccia che ha acceso il fuoco dell’autore e l’ha spinto a riflettere sulle somiglianze tra la Sicilia (aka Catania) e il Giappone:
Catania in greco antico si chiama Katane, come la spada dei samurai. La cultura del pesce crudo esiste in Sicilia come in Giappone. Da noi il piatto nazionale è l’insalata di masculini, alici crude condite con olio, limone, sale e prezzemolo. Siamo entrambe civiltà vulcaniche, sismiche e isolane. Abbiamo entrambe un perverso culto dell’onore e della vendetta. Yakuza e mafia non sono soltanto un fenomeno di criminalità organizzata, ma prosperano al liminare dei rapporti con le istituzioni. (p. 7)
Mancano gli Inuit, è vero, ma in compenso ci sono orde di mitteleuropei che hanno invaso l’isola seguendo la moda del Grand Tour iniziata dal quel cicisbeo avventuroso di nome Goethe, sbarcato sull’isola con l’anca malconcia e un cappello stile sombrero. E ci sono anche gli americani perché
La Sicilia è come l’America, soltanto più piccola, concentrata, ci vuole meno tempo per comprenderla ma il concetto è lo stesso. Per questo motivo il Grande Romanzo Americano potrà scriverlo soltanto un siciliano. Ed è per questo che i siciliani in America hanno avuto la storia che hanno avuto. Ci si sono trovati proprio come a casa loro. (p. 67)
Insomma, la Sicilia ti è stata spiegata (forse), la voglia di andare a vederla ti è venuta (certamente). Io, dal canto mio, me la rido di gusto e rifletto, con l’amaro in bocca tipico di tutti gli emigrati, in continua lotta tra amore e odio. O forse sono semplicemente siciliana e come tale combattuta da mille forze, nevrotica così come l'autore ha perfettamente detto. Ma in questo libro ho trovato una manifestazione esemplare di cosa significhi fare letteratura: strappare sorrisi, suscitare riflessioni, incidere cuori. Cappellani dice che in molti hanno tentato e tutti hanno fallito nello spiegare la sicilianitudine. Io ritengo che lui ci sia riuscito perfettamente, anche se in modo un po’ scunchiuduto (/skunkju’duto/ - Detto di qualcuno che parla in maniera sconclusionata, a vanvera).

Indovinate da quale parte dell’isola provengo?

Federica Privitera



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